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APPROFONDIMENTI.org

(periodico trimestrale)

 

n°5/2006

L'adozione; dinamiche psicologiche tra figli e genitori

Le paure dei bambini (dalla nascita ai 10 anni di età)

n°4/2006

L. 54/06 in difesa dei minori in caso di separazione

I bambini e lo sport

n°3/2006

la dislessia: una difficoltà o un dono?

gioco libero e gioco strutturato

n°2/2006

Minori e televisione

il disegno infantile, tra magia e interpretazione

n°1/2005

problemi psicologici dell'adolescenza

separazione, affido congiunto e mediazione familiare

 

 L'adozione; dinamiche psicologiche tra figli e genitori

Le ricerche sociologiche dimostrano che in Italia esiste una cultura dell’adozione ancorata a due posizioni differenti: da un lato vi è la legislazione che parla di adozione come strumento per dare una famiglia al minore in stato di abbandono; dall’altro vi è il pensiero comune secondo cui l’adozione serve a dare un figlio a chi non lo può avere. È evidente che si tratta di due posizioni molto diverse tra loro, che danno l’idea della complessità delle dinamiche che si innescano in caso di adozione, e che dovrebbero fornire una serie di spunti di riflessione anche in chi non è coinvolto nell’adozione.

Eviterò in questa sede di parlare dei requisiti necessari e di cosa devono fare le famiglie per poter adottare un figlio. Con questo mio contributo voglio mettere in luce alcuni aspetti che caratterizzano l’adozione e le dinamiche psicologiche che si creano tra i figli adottati e i genitori, cercando di fornire a questi ultimi alcuni consigli e alcune indicazioni.

 Informiamo il figlio adottivo. È necessario che il figlio adottivo sia messo al corrente della sua situazione. Per fare ciò non bisogna aspettare che sia lui a fare domande sulle sue origini o che chieda spiegazioni. Spesso, infatti, le sue domande arrivano improvvisamente e colgono impreparati i genitori. Per informare un figlio del suo stato di adottivo non sono necessarie parole precostituite o formule particolari. È necessario, semmai, uno stato di equilibrio e di serenità che i genitori devono necessariamente possedere.

Se il figlio non è informato dai genitori sul suo stato di adozione (o se riceve una informazione tardiva) può nascere uno stato di forte conflittualità. Nascondere la verità ai figli semina in questi il dubbio e l’insicurezza. Di contro, il discorso sull’adozione deve entrare a far parte della vita quotidiana della famiglia. Si tenga presente che, in genere, i discorsi sull’origine dei figli adottivi generano in loro il rifiuto ad accettare la realtà. È difficile per loro farsi una ragione del non essere cresciuti con chi li ha generati. Ciononostante i genitori devono avere il coraggio di parlare e di far parlare. È il silenzio che genera il vero disagio. Le parole, se accompagnate da gesti sinceri e spontanei (ad esempio un abbraccio), alla lunga diventano gli strumenti migliori per favorire il processo di filiazione.

 I genitori vengono messi sempre alla prova. I figli adottivi faranno di tutto per minare l’equilibrio dei genitori: li metteranno alla prova, e misureranno così la loro capacità di accettazione. I genitori, quindi, non devono vivere queste manifestazioni come un rifiuto del loro ruolo, bensì come il manifestarsi di un conflitto più profondo che sta travagliando i loro figli. Compito dei genitori è quello di restare saldi nelle loro decisioni, non scoraggiarsi, non farsi “ricattare”, e rappresentare così un vero punto di riferimento per i figli (al di là di tutte le dinamiche conflittuali che tale comportamento può generare).

A questo punto è doverosa una piccola precisazione: le regole vanno bene, ma devono essere funzionali allo sviluppo sereno del minore. Solo così quest’ultimo potrà considerarle “giuste”. In altri termini, con i propri figli non bisogna essere autoritari. Bisogna, semmai, usare autorevolezza. Le regole vanno spiegate, fatte rispettare anche se, all’occorrenza, si può concedere una deroga.

 Se gli scontri diventano troppo “duri”. Può capitare che un atteggiamento troppo aggressivo ed oppositivo venga scambiato come sicurezza dimostrata dai figli. In realtà non è così. È molto spesso sintomo di insicurezza e fragilità, e presuppone una forte richiesta di protezione e di aiuto. Può capitare che i genitori abbiano bisogno, a loro volta, di un aiuto esterno. Diventa quindi necessario rivolgersi a specialisti e a gruppi di aiuto che sappiano suggerire i comportamenti più idonei da prendere.

 Il figlio portatore di handicap. È veramente difficile per i giudici minorili e per gli addetti ai servizi trovare famiglie disposte ad accogliere i bambini con handicap. Questi ultimi, invece, sono quelli che avrebbero bisogno di più cure, di un maggior sostegno e di attenzioni particolari.

 L’adozione internazionale. Vi è la possibilità che una famiglia adotti un bambino straniero. Se il bambino da adottare è molto piccolo, non dovrebbero esserci grossi problemi di inserimento. Tali problemi potrebbero essere di natura alimentare e/o igienico-sanitaria. Se, invece, il bambino è già grande ha alle spalle una serie di vissuti e di esperienze che, molto probabilmente, l’hanno già abituato ad arrangiarsi e a far fronte a situazioni difficili. Ciononostante, appena giunge in Italia spesso viene trattato come un bambino privo di esperienze. Inoltre, nel paese di origine del minore possono esserci delle tappe di sviluppo differenti rispetto a quelle che ci sono in Italia. Ciò crea una situazione di partenza che può rendere difficili le dinamiche di inserimento in famiglia, con gli amici, a scuola, ecc.

Un ulteriore ostacolo allo sviluppo della personalità del minore straniero adottato è il colore della pelle: pregiudizi, stereotipi e ignoranza popolare aumentano la sua insicurezza e il suo disagio.

 Gli altri membri della famiglia. Se il bambino adottato ha pochi mesi, solitamente viene accettato di buon grado anche dal resto della famiglia (nonni, zii, ecc.). Se, invece, è più grande e presenta problemi di adattamento, si può assistere ad atteggiamenti di non accettazione (più o meno esplicita):

bullet  “fa disperare quei poveri genitori che gli danno tutto. È un ingrato, dopo tutto quello che fanno per lui”
bullet “chissà com’erano i suoi genitori d’origine: avrà preso da loro. Noi non siamo certo una famiglia così”
bullet “te l’avevo detto che non dovevi fidarti a prendere con te un bambino che non è del tuo stesso sangue o della tua razza”

Paradossalmente, maggiore è la necessità di accettazione (mostrata dal figlio adottivo con comportamenti di rifiuto e ribellione), minore è la disponibilità, da parte della famiglia allargata, ad accettare il bambino.

La situazione diventa più delicata quando nella famiglia che vuole adottare un bambino ci sono figli biologici. In questo caso diventa necessario un approfondimento diagnostico per capire se i figli hanno la capacità di affrontare un cambiamento così forte. Tale cambiamento potrebbe causare, soprattutto se i bambini già presenti in famiglia sono ancora piccoli, sintomi di regressione, di conflitto e di gelosia legati al fatto che questi figli dovranno condividere con un nuovo entrato (sarebbe meglio dire “intruso”) in famiglia le attenzioni che prima erano dedicate esclusivamente a loro. Questi aspetti si acuiscono se il fratello adottivo è, di fatto, diverso dall’immagine che i figli biologici si erano fatti di lui (soprattutto se questi presenta quei comportamenti problematici che “attirano” l’attenzione dei genitori).

L’indagine diagnostica dovrebbe inoltre cercare di fare emergere se i genitori sapranno evitare discriminazioni tra i figli biologici e quelli adottivi.

Se, di contro, i figli biologici sono sufficientemente equilibrati in termini affettivi ed emotivi, e se i genitori si dimostrano capaci di distribuire le loro attenzioni e i loro affetti in maniera equa e imparziale, si creeranno le situazioni più favorevoli per inserire un figlio adottivo nel nuovo contesto familiare.

 La scuola. I bambini adottivi che iniziano a frequentare la scuola possono manifestare problematiche che riguardano due ambiti: l’inserimento nel gruppo dei coetanei e l’apprendimento.

Le difficoltà di apprendimento difficilmente dipendono da una scarsa intelligenza. Sono semmai imputabili a meccanismi inconsci che portano ad un rifiuto di tutto ciò che non si conosce (in quanto ciò che non si conosce non è controllabile a priori, fa paura, e viene quindi vissuto come una minaccia).

A ciò si aggiunga che la scuola chiede un cambiamento nella vita dei bambini: questi devono progressivamente emanciparsi dalla famiglia per entrare a far parte di un contesto sociale più allargato.

Cosa devono fare quindi i genitori? Aiutare i figli adottivi a (ri)costruire e a conservare il proprio passato; aiutarli, mostrando loro tutto l’affetto di cui sono capaci, a rivivere il percorso che dalla loro nascita, attraverso l’abbandono, li ha portati ad una “rinascita” adottiva capace di garantire una crescita armonica e il più possibile serena all’interno della nuova famiglia e delle istituzioni scolastiche.

Ed è proprio la scuola, frequentata da bambini che sono portatori di culture, di esperienze e di vissuti diversi, che può diventare il luogo di eccellenza in cui i bambini possono conoscere, confrontare ed accettare le proprie diversità. È la scuola che può insegnare ai bambini ad accettare le diversità (di origine, di razza, di vissuti familiari), combattendo quell’omologazione che mass media e cultura dominante tendono a stigmatizzare. In altre parole, la scuola può contribuire a combattere le stereotipie che enfatizzano la famiglia costituita da padre, madre e figli biologici.

I bambini tendono a chiedere ai propri genitori come e da chi sono nati aspettandosi risposte rassicuranti. I bambini adottivi, invece, non riescono a ricevere queste rassicurazioni in quanto vivono con grande disagio la diversità derivante dal non essere stati partoriti dalla loro madre. Le risposte che riceveranno dai loro genitori potranno essere veramente accettate solo se questa diversità sarà intesa non come mancanza di qualcosa, ma come modo diverso di essere.

Nella scuola, pertanto, i bambini dovrebbero trovare uno spazio in cui poter esprimere se stessi, le proprie esperienze e diversità. Tale spazio presuppone anche che i bambini non siano forzati a parlare di loro. Si deve dare loro la possibilità di farlo quando si sentono pronti a rendere pubblica la loro storia e i loro vissuti.

Parallelamente, gli insegnanti dovranno accompagnare la crescita della classe parlando della famiglia al di fuori degli stereotipi culturali che la vedono come il frutto di elementi puramente biologici. In altri termini la famiglia dovrebbe essere descritta come un qualcosa che prevede un rapporto affettivo che si consolida giorno dopo giorno.

 Conoscere la propria famiglia d’origine. Prima o poi il figlio adottivo si chiederà perché è stato abbandonato dai genitori biologici. Questa domanda, soprattutto durante l’adolescenza, genera una crisi profonda nel minore. Spesso nasce in lui la necessità di conoscere e di incontrare la sua famiglia di origine, per avere spiegazioni, per comprendere la sua storia, per capire.

Il dibattito sull’opportunità che i figli incontrino e conoscano i genitori biologici è ancora aperto. Secondo alcuni ritrovare i genitori biologici potrebbe avere una funzione terapeutica capace di fornire ai minori un proprio equilibrio. Secondo altri, invece, diventa inopportuno se non addirittura dannoso che i figli conoscano i loro genitori biologici. Spesso questi ultimi si sono visti costretti ad abbandonare il proprio figlio perché vivevano in situazioni particolarmente difficili: alcool, droga, disagio, povertà, violenza familiare, ecc. Il minore che incontra i genitori biologici corre il rischio, quindi, che le sue aspettative relative ad una famiglia di origine idealizzata restino deluse di fronte alla famiglia d’origine reale. Inoltre, secondo questo indirizzo di pensiero, la ricerca dei propri genitori biologici è l’espressione di un disagio intimo che, in realtà, non dipende dalla necessità di trovarli, ma ha come fondamento il non sentirsi integrato nella nuova famiglia, il non voler accettare la propria storia.

Sicuramente i genitori non devono sottovalutare le richieste dei figli adottivi. Né tantomeno devono ipotizzare che tali richieste mettano in discussione la solidità e la validità del loro rapporto (a volte la ricerca dei genitori biologici è in realtà una forma di ricatto psicologico nei confronti della famiglia). È importante che i genitori siano capaci di accettare il figlio con le sue richieste, con le sue difficoltà, con le sue paure. Il minore deve essere accettato per quello che è, e non per quello che si vorrebbe. Solo così potrà sentirsi parte integrante della sua famiglia. Un figlio adottivo necessita di continue conferme di appartenenza a quella famiglia. Ciò serve a lui e serve anche ai genitori, che così facendo si sentono ancor più legittimati nel loro ruolo. Si tratta di dimostrate con le parole e con i gesti l’affetto nei confronti dei figli adottivi, anche quando sembra che questi lo rifiutino. Si tratta, inoltre, di mettere in atto comportamenti che rafforzino la personalità del minore: abbracci, sorrisi e sguardi sono atteggiamenti che contribuiscono a comunicare quanto il minore sia importante. È altresì importante non scoraggiarsi davanti alle difficoltà, anche se queste sono continue e tendono talvolta a creare un clima di tensione.

  dott. Gilberto Angione

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Le paure dei bambini (dalla nascita ai 10 anni di età)

Tra le cosiddette emozioni universali la paura riveste un ruolo privilegiato. Si tratta di un’emozione che coinvolge anche i bambini più piccoli. In questo caso diventa più complicato individuarla perché non sempre può essere verbalizzata. I bambini, ad esempio, possono manifestare il disagio legato alla paura attraverso atteggiamenti instabili, turbolenti piuttosto che intimoriti o eccessivamente razionali.

È corretto sostenere che anche i bambini più piccoli possono provare paure particolarmente intense. Ma quali sono le paure che li assalgono?

Esistono alcune paure “trasmesse” dal micro e dal macro ambiente. Sono le paure che i genitori infondono ai propri figli (ad esempio attraverso atteggiamenti ansiosi), e sono le paure che la società stessa impone alle persone (paura del terrorismo, rapine, ecc).

Di contro esistono paure tipiche delle varie fasi dello sviluppo, al punto che è possibile affermare che ogni età ha le sue paure naturali e fisiologiche.

1.   Nei primi sei mesi di vita ciò che spaventa i bambini sono i rumori intensi. Il bambino, inoltre, piange quando lo si spoglia (non perché ha freddo ma perché sente un cambiamento sulla pelle che gli provoca disagio) e teme il cosiddetto “riflesso di Moro” che consiste nella risposta alla sensazione di cadere all’indietro.

2.    Nel secondo semestre di vita, quando il sistema nervoso consente ai bambini di discriminare il viso delle persone, compare la paura di separarsi dalle proprie figure di riferimento e, talvolta, può comparire anche la paura degli estranei. Tipica di questo periodo è anche la paura di restare soli.

3.   Nel secondo e nel terzo anno di vita le paure sono legate alle esperienze che i bambini vivono: il medico, gli animali, l’acqua, se legati a vissuti negativi possono essere la causa di paure che, comunque, tenderanno a passare dopo qualche tempo.

4.   Tra i tre e i sei anni compaiono la paura del temporale, dell’oscurità, dei mostri, dei lupi e dei fantasmi, di essere rapiti e di perdersi.

5.   Tra i sei e i dieci anni ci si trova davanti ad alcune paure che, a differenza delle precedenti, tenderanno a durare a lungo: paura della separazione dei genitori, di non essere accettato dai compagni, paura degli insetti, dei serpenti, dei ladri, dei rapinatori, del sangue, delle iniezioni, degli incidenti, ecc. Il bambino che si trova in questa fase dello sviluppo teme, inoltre, le situazioni nuove che non conosce e che, quindi, non gli danno sicurezza.

 

Con lo sviluppo molte paure scompaiano spontaneamente. Tuttavia i genitori possono fare molto per aiutare la crescita dei propri figli e per evitare che semplici e utili paure diventino vere e proprie fobie. Qual'è, infatti, la differenza tra paura e fobia?

Nella paura c’è un pericolo esterno e reale, che provoca una sensazione di ansia più o meno profonda. Se, ad esempio, un bambino si trova vicino ad un burrone, quando ha paura può reagire allontanandosi dal pericolo.

Nella fobia, invece, si assiste ad un timore eccessivo e non reale che può provocare attacchi di panico.

 

Cosa possono fare, quindi, i genitori?

1.   Con i bambini più piccoli è opportuno cercare di essere abitudinari in quello che si fa. Tecnicamente si dice che è necessario adottare le cosiddette routine: ripetere le stesse azioni (ad esempio prima dell’addormentamento). Ciò contribuisce a dare sicurezza ai bambini in quanto l’azione è a loro già nota.

2.   Aiutare il bambino ad affrontare la paura gradualmente.

3.   Dare il buon esempio dimostrando con i fatti che certe paure sono infondate.

4.   Ascoltare il bambino e le sue motivazioni dando importanza ai suoi vissuti.

5.   Spiegare perché una situazione non è pericolosa, riportandogli esempi concreti.

6.   Utilizzare delle fiabe o dei racconti che aiutino il bambino a tradurre in immagini le sue emozioni (rivolgendosi ad un esperto è possibile ricorrere, ad esempio, alla tecnica dello psicodramma).

7.   Lasciare i bambini liberi di esprimersi attraverso il disegno ed il gioco (anche in questo caso, rivolgendosi ad uno specialista, è possibile effettuare una corretta interpretazione e valutazione dei disegni).

 

Di contro, cosa non devono fare i genitori?

1.   Costringere o insistere affinché il bambino affronti necessariamente una situazione di cui ha paura.

2.   Banalizzare e svalutare le paure dei bambini.

3.   Umiliare il bambino attribuendogli aggettivi quali “fifone” o “pauroso”.

4.   Essere troppo ansiosi.

 

È opportuno infine ribadire che la paura, se non si trasforma in fobia, può avere un significato positivo per la crescita dei bambini: li aiuta a non mettersi in situazioni che potrebbero rappresentare un serio pericolo per la propria incolumità.

  dott. Gilberto Angione

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L. 54/06 in difesa dei minori in caso di separazione

Cercherò, con questo mio contributo, di fornire qualche indicazione relativa alla Legge 8 febbraio 2006 n° 54 sull’affido condiviso, così da rendere un po’ più chiaro il quadro normativo di riferimento.

bullet La legge in menzione afferma il diritto dei bambini, in caso di separazione dei genitori, a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo sia col padre che con la madre.
bullet La potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Ne consegue che le decisioni di maggiore interesse per i figli (relative all’istruzione, all’educazione e alla salute) sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice.
bullet Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente. Resta ferma la possibilità di raggiungere preliminarmente accordi extragiudiziari.
bullet Il minore ha il diritto di mantenere rapporti significativi anche con altre figure parentali quali nonni, zii e cugini.
bullet Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito.
bullet Il giudice stabilisce ove necessario (salva la facoltà di raggiungere anche in questo caso accordi extragiudiziari) la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:
  1. le effettive ed attuali esigenze del figlio
  2. il tenore di vita goduto dal figlio in regime di convivenza dei genitori
  3. i tempi di permanenza presso ciascun genitore
  4. le risorse economiche dei genitori
  5. la valenza economica dei compiti che i genitori si sono assunti

 Va da sé che per rendere efficace l’applicazione di questa legge è necessario un clima di intesa e di comunicazione costruttiva tra i genitori. Purtroppo, il più delle volte la separazione coniugale avviene in un clima di forti tensioni (che vanno ad aggravare la situazione già precaria della psiche dei figli).

In questo caso è possibile ricorrere ad un aiuto professionale: la mediazione familiare. Questa forma di aiuto prevede un percorso strutturato in un determinato numero di incontri, stabilito in base al grado di accordo esistente tra gli ex coniugi, ed è finalizzato alla gestione positiva dei conflitti. Il mediatore, figura imparziale, non da giudizi su chi ha ragione o chi ha torto. Si limita a favorire la riapertura (e in taluni casi l’apertura) di un canale comunicativo sufficiente a garantire la negoziazione di accordi condivisi che riguardano la vita dei propri figli. Ribadisco, quindi, che questa mediazione non ha assolutamente l’obiettivo di rilanciare la coppia.

La mediazione può anche essere richiesta dal giudice, ma per ovvi motivi sarebbe opportuno che i genitori vi ricorressero preliminarmente.

Il mediatore familiare è uno specialista (ad esempio il pedagogista clinico) che lavora in strutture pubbliche o private. Sarebbe opportuno, in ogni caso, rivolgersi a professionisti accreditati da alcune associazioni di riferimento. Qui, per completezza di informazioni, ne indico alcune:

ISFAR (Post Università delle Professioni) www.mediatorirelazionali.it/

AIMEF (Associazione Italiana Mediatori Familiari) www.aimef.it

SIMEF (Società Italiana Mediazione Familiare) www.simef.it

 dott. Gilberto Angione

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I bambini e lo sport

È importante che i bambini facciano movimento sin dai primissimi mesi di vita, così da potenziare le capacità motorie, le funzioni sensoriali, rafforzare la conoscenza di se stessi e dello spazio circostante.

È quindi  opportuno che i bambini pratichino uno sport? A che età è possibile introdurli ad una disciplina sportiva vera e propria? Qual è lo sport più indicato?

Praticare uno sport è sicuramente utile e positivo. In linea di massima è corretto avviare alle attività sportive dopo il compimento del quinto anno. Per stabilire qual è lo sport più indicato per i bambini ritengo conveniente fornire alcune utili indicazioni.

1.   Nella pratica sportiva il bambino si deve divertire. L’atleta adulto si allena in funzione del raggiungimento di un determinato obiettivo. Ciò non deve assolutamente avvenire per il bambino. Iscrivere un bambino ad un corso di avviamento allo sport significa, infatti, agire sul suo sviluppo psichico. La pratica sportiva prolungata ha degli effetti sulla personalità, nonché sull’acquisizione di competenze utili, ad esempio, a ridurre i rischi di futuri disturbi dell’apprendimento. Purtroppo in molte società sportive si verifica un meccanismo per il quale l’aspetto agonistico ha il sopravvento su quello ludico – formativo. Prendiamo ad esempio il caso del calcio; per un’errata ma diffusa concezione di quello che è il prestigio sportivo, le società calcistiche si fregiano dei successi o comunque dei risultati delle proprie formazioni giovanili. La dirigenza spesso assegna gli allenatori o gli istruttori alle varie squadre collegando direttamente la qualità e l’esperienza del preparatore alla categoria, in modo che i ragazzini più giovani si ritrovano l’istruttore più giovane ed inesperto, che oltretutto viene incentivato a raggiungere risultati agonistici nei tornei di categoria. Questo è proprio l’atteggiamento da evitare.

2.    Un’altra indicazione riguarda l’ambiente dal quale proviene il bambino. In un ambiente urbano i bambini trascorrono parecchie ore davanti al televisore, al computer o ai videogiochi; vivono spesso in spazi ristretti e monotoni; hanno poche possibilità di giocare all’aria aperta, in cortile, con i coetanei. Tutto ciò produce effetti negativi sul piano delle abilità motorie. Ciò non avviene se un bambino è abituato a giocare all’aperto e ad arrampicarsi sugli alberi. Diventa quindi opportuno orientarsi su quegli sport che facilitino il recupero delle competenze motorie alle quali i bambini sono carenti.

3.    È bene tener presente che l’approccio ad uno sport deve avvenire sempre per gradi e deve favorire l’espressione spontanea ed individuale dei bambini, che sono, se opportunamente stimolati, orientati ad autocorreggersi naturalmente. Paradossalmente, i genitori sembrano essere la prima causa di abbandono dell’attività da parte dei figli. Secondo alcune ricerche, quasi il 70% dei bambini avviati alla pratica di uno sport all’inizio dell’età scolare (5-6 anni), la abbandona entro i 12-13 anni di età. La causa di ciò potrebbe essere individuata nella perdita di interesse e di motivazione dovuta alle eccessive aspettative che i genitori hanno in merito alle prestazioni dei propri figli.

 Fatta questa precisazione, passiamo ad elencare alcuni sport tra i più diffusi nella nostra società, analizzando le loro caratteristiche.

Ø        Arti marziali. Sono attività spesso malviste dai genitori che temono per l’incolumità dei figli. In realtà, se ben gestite, sono discipline utilissime al loro sviluppo. I bambini lavorano sulla coordinazione, sulla mobilità articolare, entrano in contatto con la propria aggressività imparando a conoscerla e a controllarla. In generale, le arti marziali sono attività che consentono di acquisire confidenza col proprio corpo, sicurezza nelle proprie capacità e consapevolezza dei propri limiti. 

Ø        Atletica leggera. Lanciare, correre, marciare, saltare. È uno sport che si pratica all’aria aperta e che consente di fare quasi tutto quello che il corpo umano può fare. 

Ø        Ballo e danza. L’apprendimento degli schemi motori ne trae un’enorme vantaggio. Ci si coordina nello spazio e con le altre persone, il tutto imparando a tenere il ritmo. Da non sottovalutare anche il fatto che si ingentiliscono i movimenti, contrastando la perdita di coordinazione che si ha nei periodi di veloce crescita fisica. Si sviluppano capacità che, in età più avanzata, si sviluppano con molte più difficoltà. 

Ø        Ginnastica artistica e ritmica. Anche in questo caso, come per l’atletica leggera, si impara a fare quasi tutto quello che il corpo umano può fare. La ricchezza di stimoli che viene fornita è enorme (di rilievo anche l’aspetto ritmico e musicale). Ci si muove tanto, e si impara a tenere l’equilibrio in posizioni veramente difficili. 

Ø        Nuoto. Consente lo sviluppo della coordinazione tra movimenti e respirazione. Poiché la densità del corpo umano è all'incirca simile a quella dell'acqua, il corpo viene sostenuto da questa sottoponendo le ossa e le giunture ad uno stress piuttosto basso. Per questo motivo il nuoto è frequentemente usato nella riabilitazione delle disabilità o a seguito di traumi. 

Ø        Pallavolo, pallacanestro e pallamano. Correre, saltare e lanciare: il bambino deve afferrare, guardarsi attorno, prendere decisioni, collaborare con i compagni di squadra. Sono sport utili per l’acquisizione di molteplici schemi (anche mentali). 

Ø        Pattinaggio. Si tratta di un’attività ludica che può diventare anche sportiva. Contempla in sé molte delle caratteristiche già elencate per la ginnastica, il ballo e la danza. 

Ø        Equitazione: Di grande utilità, soprattutto perché praticata all’aperto, in ambiente campestre e a contatto con la natura. Sono infatti ormai noti i vantaggi apportati dalla cosiddetta ippoterapia, con la quale si ricercano miglioramenti funzionali psichici e motori attraverso l’interazione uomo-cavallo.

 A conclusione di questa rassegna vorrei segnalare la necessità, indipendentemente dallo sport che si sceglie per i propri figli, di affidarsi ad una società sportiva, ad un’équipe o ad un istruttore qualificati. L’improvvisazione, infatti, potrebbe essere molto dannosa per la salute dei nostri bambini. Sarebbe meglio non metterla a repentaglio.

 dott. Gilberto Angione

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la dislessia: una difficoltà o un dono?

Circa il 4% dei bambini e dei ragazzi che frequentano la scuola ha problemi di dislessia evidente, mentre un altro 6% è dislessico in forme più lievi. Ma in cosa consiste la dislessia? È la difficoltà di leggere (spesso associata alla difficoltà di scrivere e di fare i conti) in modo corretto e fluente.

In realtà non è del tutto corretto considerare la dislessia come una difficoltà. È tale, infatti, se si cerca affrontarla adottando le strategie di apprendimento comuni alla maggior parte dei bambini (quelle strategie che vengono utilizzate nelle scuole). Tuttavia il dislessico presenta competenze particolarmente accentuate in ambiti che coinvolgono il pensiero concreto, visivo e spaziale. Si tratta, quindi, di far leva su queste competenze per portarlo a leggere, scrivere e fare i conti in maniera fluida e corretta. Bisogna ricorrere a metodi e strategie che, molto probabilmente, non risulterebbero idonei con bambini e ragazzi non dislessici.

L’aspetto veramente importante per aiutare un dislessico consiste nel riconoscere al più presto i segni della dislessia. Ciò consente di intervenire tempestivamente e in maniera appropriata evitando ripetuti e frustranti insuccessi scolastici e, di conseguenza, disadattamenti più o meno gravi dovuti alla perdita della motivazione e della fiducia nelle proprie possibilità. Sono molti, infatti, i bambini dislessici che, a causa di una tardiva diagnosi o di un intervento non appropriato, accusano ansia da prestazione, depressione e scarsa autostima.

Le ricerche più recenti confermano l’ipotesi di un origine genetica della dislessia: in alcuni bambini ci sarebbe una predisposizione innata. La Dislessia, infatti, tende ad essere presente in più membri della stessa famiglia, anche se con intensità diversa. Ma quali sono i “segni” ai quali i genitori devono fare attenzione per capire se è il caso di portare il proprio figlio da uno specialista? In altre parole, come si può manifestare la dislessia?

Precisando che la dislessia deve essere diagnosticata da uno specialista, e che ogni bambino dislessico presenta configurazioni di abilità e di difficoltà differenti, possiamo riassumere alcuni aspetti tipici della dislessia.

Nella scuola materna

*        Ritardo evidente nella comparsa del linguaggio

*        Evidenti difficoltà di concentrazione

*        Movimenti fini delle mani scoordinati e/o notevoli difficoltà nei grossi movimenti

*        Bambini mancini

Tuttavia, essendo la dislessia una difficoltà di lettura, è durante la scuola dell’obbligo (soprattutto dopo i sette anni) che si manifestano i “segni” più evidenti:

*        Scambio di lettere che hanno tratti visivi simili o speculari ( “e” con “a”, “r” con “e”, “m” con “n”, “b” con “d”, “p” con “q” ecc.)

*        Scambio di lettere che hanno la stessa “radice” (“f” con “v”, “c” con “g” ecc.)

*        Scambio di grafemi (b-p, b-d, f-v, r-l, p-q, a-e)

*        Omissioni o aggiunte di lettere o sillabe

*        Inversioni (il-li)

*        Fusioni non corrette (“lacqua”, “nonèvero”)

*        Scambio grafema omofono (“quore”, squola)

*        Omissione o aggiunta di h

*        Doppie non riconosciute

*        Accenti e punteggiatura non corretti

*        Confusione sinistra/destra

*        Salti di riga nella lettura di un testo

*        Lettura molto esitante e faticosa

*        Forte disparità di abilità tra linguaggio scritto e parlato

*        Continue correzioni e cancellature durante la scrittura

*        Problemi con la memoria a breve termine

*        Generalmente si ha un’eccellente memoria a lungo termine

*        Il dislessico non pensa, perlopiù, verbalmente (attraverso le parole) ma utilizza le immagini

*        Sembra iper – attivo

  È opportuno comprendere che la dislessia va affrontata considerando la persona nella sua globalità. Non è corretto aiutare un dislessico utilizzando solo i metodi propri della logopedia. Il “recupero” del dislessico deve essere condotto a 360°, prendendo in considerazione gli aspetti emotivi, quelli psicologici, la storia, i problemi che ha vissuto la persona, ecc. Mi sono capitate in studio persone che, deluse dai metodi tradizionali (legati esclusivamente alla logopedia), erano ormai quasi rassegnate a dover convivere con la dislessia. Proponendo loro un intervento di aiuto che considerava la persona nella sua totalità, mi è stato possibile lavorare sfruttando le potenzialità delle persone stesse, conseguendo risultati tanto graditi quanto inaspettati.

A tal proposito diventa utile sottolineare che ogni intervento di aiuto alla persona dislessica deve essere individualizzato e non standardizzato. Lo specialista deve “possedere” una molteplicità di tecniche e sapere quale utilizzare a seconda della persona che si trova davanti aiutandola, nel contempo, a costruire un’immagine positiva di sé. Ed in tale processo riveste grande importanza l’ambiente familiare del dislessico.

È utile comprendere che la dislessia non dev’essere considerata un problema. Addirittura mi sento di condividere quelle posizioni secondo cui la dislessia è un dono. Il dislessico, infatti, ha delle capacità e delle potenzialità non comuni, che gli consentono di raggiungere competenze alle quali un non dislessico difficilmente potrebbe arrivare. I dislessici, infatti, sono capaci di alterare e creare le percezioni, hanno una forte consapevolezza dell’ambiente che li circonda, sono più curiosi della media, hanno molto intuito, pensano e percepiscono in maniera multi – dimensionale (usando tutti i sensi), possono sentire il loro pensiero come reale, hanno una vivida immaginazione. Del resto, ed a comprova di ciò, vorrei ricordare che personaggi quali Leonardo Da Vinci, Albert Einstein, Winston Churchill, Walt Disney, Harry Belafonte, Nelson Rockfeller e tantissimi altri ancora sono annoverati tra i dislessici famosi.

 dott. Gilberto Angione

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 gioco libero e gioco strutturato

Siamo oramai nell’epoca in cui tutto il nostro tempo deve essere organizzato a priori. Questo vale anche per i bambini: lunedì in piscina, martedì c’è l’inglese. Mercoledì il calcio o la danza, ecc. A tutto ciò aggiungiamo la scuola e i compiti.

La domanda che ci si potrebbe porre diventa, quindi, la seguente: ma quando i bambini trovano il tempo per giocare in modo libero e spontaneo?

Sembra una domanda banale. In realtà contiene una serie di significati e di risvolti che, dal punto di vista pedagogico, rivestono una grandissima importanza. A ciò si aggiunga un ulteriore elemento. I giochi che piacciono tanto ai genitori sono estremamente strutturati. Ci dicono come si incomincia, cosa si deve fare e come si finisce. Anche quei giochi che promettono di stimolare, sviluppare e potenziare le capacità e la curiosità dei bambini spesso fanno fare ai nostri piccoli sempre le stesse cose, smorzando le loro capacità di invenzione, di simbolizzazione e di creatività.

Per spiegarmi meglio vorrei fare un esempio: il videogame è uno dei giochi più strutturati in assoluto. Il ragazzino pensa che sia lui a comandare il gioco. In realtà è il gioco che “dice” al ragazzino cosa deve fare: lo tiene inchiodato davanti ad un monitor per parecchie ore, gli fa muovere un joystick e gli fa premere alcuni bottoni, mentre il cervello è impegnato a recepire una serie di immagini che lo fanno lavorare in maniera esageratamente veloce rispetto a come lavorerebbe nella realtà.

Certamente non tutti i giochi sono strutturati come il videogame. Ciononostante il mio invito consiste nel dar spazio anche a quei giochi/non giochi che di strutturato hanno ben poco. Un altro esempio dovrebbe chiarire questo concetto: il mestolo di legno che si adopera in cucina ha una funzione precisa. Ma se lo si esporta dalla cucina e lo si trasforma in un gioco può diventare un telefono, una spada, la scopa della fata, ecc. Si capisce bene quanti e quali elementi psichici vengono coinvolti giocando con un semplice mestolo.

 Con ciò non voglio assolutamente sostenere l’ipotesi che i giochi strutturati non debbano essere utilizzati. Il mio invito, semmai, è quello di  affiancarli ad una serie di esperienze che il bambino può fare attraverso semplici e più economici oggetti che possono essere recuperati nell’ambiente domestico. Ciò avrebbe un ulteriore vantaggio (importante soprattutto per i bambini più piccoli): fare esperienze tattili con oggetti che hanno forma, colore, solidità e sapori differenti. I giochi strutturati, infatti, sono prevalentemente in plastica. Ciò offre garanzie igieniche e in termini di sicurezza assai notevoli. Tuttavia la plastica ha sempre la stessa consistenza e solidità, al tatto non offre particolari stimolazioni, ha sempre lo stesso odore e sapore. Gli oggetti cosiddetti di recupero, invece, possono essere in legno, in metallo, in stoffa, ecc. Tutto ciò dovrebbe indurre gli adulti a riflettere sulla molteplicità di stimoli e di sensazioni che si possono far provare ai bambini con questi materiali. Ed è anche per questo che negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia si tende ad utilizzare questi oggetti al posto di quelli in plastica. Un’unica e importantissima avvertenza: assicuratevi che gli oggetti di recupero che fornite ai vostri bambini, soprattutto ai più piccoli, non diventino un serio pericolo per loro.

 dott. Gilberto ANGIONE

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minori e televisione

In Italia, i bambini guardano la televisione in media due ore e mezza al giorno (con punte fino a cinque ore). Una ricerca condotta da Eurispes evidenzia che il 30% dei bambini con età compresa tra i 3 e i 10 anni guarda la televisione da solo, mentre il 28% con fratelli e sorelle. Solo una piccola parte di questi bambini guarda la televisione in compagnia dei genitori o dei coetanei. A questi dati si devono aggiungere le ore che i bambini dedicano al computer e ai videogiochi. La conseguenza più evidente di tutto ciò è che i bambini dedicano più tempo alla televisione che al gioco e allo studio.

 Una ricerca condotta da TeleMouse (osservatorio sulla televisione internazionale), evidenzia che il 63% dei bambini si addormenta davanti alla TV. Solo il 17% si addormenta nel proprio lettino, mentre i più si addormentano sul divano durante la trasmissione di spettacoli rivolti ad un pubblico adulto.

 E ancora: nella maggior parte dei casi i membri della famiglia si trovano riuniti per cena e in compagnia della televisione. I genitori, stanchi della lunga giornata lavorativa, vorrebbero rilassarsi, ascoltare il telegiornale o guardare un programma di evasione. I figli, invece, pretendono di guardare programmi di loro interesse (che quasi mai coincidono con quelli che vorrebbero guardare gli adulti). La soluzione che viene spesso adottata consiste nell’avere più apparecchi televisivi in stanze diverse.

Sul piano pedagogico l’esito più grave di questa organizzazione consiste in una drastica diminuzione dei momenti dedicati al confronto, alla comunicazione familiare, all’ascolto, alla presentazione dei problemi personali.

 Un’altra ricerca condotta tra i ragazzi di 10-14 anni ha messo in evidenza quanto sia prevalente, nel processo di costruzione dell’identità, l’assimilazione dei modelli sociali veicolati dai mass media in generale e dalla tv in particolare.

Infatti in questa età, come ho già avuto modo di evidenziare in un mio precedente contributo sull’adolescenza, il ragazzo è alla ricerca di una sua identità personale. Il processo di identificazione con i modelli dominanti, se non accompagnato da un proprio spirito critico, conduce gli adolescenti verso un processo di omologazione sociale.

 Tutte queste analisi dovrebbero portare noi addetti ai lavori, ma soprattutto i genitori, a fare delle considerazioni che rivestono una grande importanza (spesso troppo sottovalutata) per lo sviluppo psico-fisico dei minori.

 Si potrebbero iniziare queste considerazioni ponendo alcune domande: fa davvero così male la tv ai bambini? Secondo uno studio dell’American Academy of Pediatrics la TV può addirittura essere una causa dell’A.D.H.D. (Attention Deficit Hyperactivity Disorder), che consiste in un disturbo da deficit di attenzione con iperattività.

Si tratterebbe di una ricerca molto importante anche perché dimostrerebbe, stando a quanto sostiene il dottor Dimitri A. Christakis (direttore del Child Health Institute at Children’s Hospital and Regional Medical Center di Seattle), che i neuroni del cervello di un bambino che resta troppo tempo davanti allo schermo si sviluppano in maniera diversa rispetto alla norma. Questo perché le informazioni che un bambino “cattura” dallo schermo sono molto rapide e accelerate rispetto a quelle che il cervello recepisce dalla realtà, e il cervello si adatta alla rapidità di queste informazioni. Il danno appare evidente già a 7 anni, quando il bambino ha difficoltà a prestare attenzione a scuola.

 La seconda domanda che ci si dovrebbe porre, quindi, è: la televisione serve veramente ai bambini? La risposta sembra scontata: i bambini più piccoli (mi riferisco in particolare a quelli in età pre-scolare) non hanno nessun bisogno di una TV per distrarsi (lo dimostra anche il fatto che l’invenzione della TV è un fenomeno abbastanza recente mentre i bambini con i genitori che lavoravano tutto il giorno c’erano anche prima). Valide alternative alla televisione si possono trovare, ad esempio, nel gioco: abituare il bambino a giocare (anche da solo) con gli oggetti che trova, non stimolarlo eccessivamente con troppe attività somministrate contemporaneamente, consentirgli le interazioni con i coetanei, ecc. I bambini che guardano molta televisione di fatto usano molto meno l’immaginazione e la drammatizzazione nei loro giochi. È il gioco, e non la TV, che aiuta i più piccoli a costruire la propria personalità.

 D’altro canto non si può negare che la televisione possa favorire la crescita e l’educazione, informare e persino formare attraverso programmi di qualità. Basti pensare al telegiornale per i ragazzi, a trasmissioni che (in forma documentaristica o animata) trattano temi di storia, di geografia o di scienze naturali; ad alcuni programmi di intrattenimento pomeridiani molto ben fatti che si propongono obiettivi cognitivi, logici e linguistici. Non diventa più, quindi, soltanto una questione di tempo, bensì di qualità del tempo passato davanti ad una televisione di qualità.

Tuttavia, il dilagare delle problematiche scaturite da questa realtà ha portato gli esperti alla formulazione di alcune regole che aiutano a gestire un po’ più correttamente il rapporto tra televisione e i ragazzi.

1)     Proporre ai bambini i programmi adatti alla loro età. I bambini più piccoli, infatti,  non hanno ancora gli strumenti per comprendere la differenza tra realtà e finzione. Esistono, quindi, cartoni animati a ritmi lenti, con pochi personaggi e vicende semplici che sono più vicini alla loro psicologia e al loro linguaggio. Sicuramente è opportuno evitare di somministrare la televisione in età prescolare.

2)     Gli adulti dovrebbero guardare la televisione insieme ai bambini. È un modo per aiutare questi ultimi a capire ciò che appare sul teleschermo, ad avere un atteggiamento più attivo e critico di fronte all'immagine, alle emozioni e ai messaggi televisivi. Inoltre commentare insieme i programmi può essere una piacevole occasione di incontro per la famiglia.

3)     Non utilizzare la televisione come premio o castigo. Le verrebbe, infatti, attribuito un valore che di fatto non ha. Inoltre sarebbe opportuno aiutare i minori ad usare la TV in modo libero, volontario.

4)     Non demandare alla televisione il ruolo di baby-sitter. un bambino ha bisogno di interagire con persone reali, di muoversi, gattonare, correre ed esplorare in modo attivo l’ambiente che lo circonda.

5)     Concertare con i bambini il tempo da dedicare alla tv definendo, di volta in volta, le fasce orarie più adatte. È opportuno che tale tempo non sia, complessivamente, superiore a un’ora e mezzo al giorno.

6)     Evitare che i bambini guardino la tv prima di andare a scuola. È necessario salvaguardare il momento della prima colazione, che sarebbe opportuno sia passata insieme ai genitori. La TV al mattino presto, inoltre, porta via tempo e attenzione alla scuola: può accadere che i bambini si alzino prima del necessario per vedere una trasmissione o arrivino a scuola in ritardo, stanchi e poco motivati.

7)     Evitare che i bambini si addormentino davanti al televisore. È inoltre opportuno che decorra un po’ di tempro da quando spengono la TV a quando vanno a letto. Sono sconsigliabili programmi che creano particolari eccitazioni.

8)     Non guardare la televisione durante i pasti e durante i compiti. La TV, infatti, toglie spazio al dialogo interfamiliare (durante i pasti). E impedisce di concentrarsi durante l’esecuzione dei compiti.

9)     Non lasciare in mano al bambino il telecomando. Lo zapping rischia di portare il bambino ad avere una comprensione parziale della trasmissione che sta guardando (cogliendo solo i messaggi più semplici e più forti). Da evidenziare, inoltre, il rischio di incorrere a programmi non adatti alla sua età.

10)Non collocare il televisore nella camera dei bambini. C’è il rischio concreto che figli e genitori perdano le loro occasioni di dialogo e di confronto.

11)Creare valide alternative alla televisione. Promuovere la lettura, la partecipazione ad attività sportive, ad incontri con gli amici, ecc.

12)Evitare che il bambino assuma posture scorrette mentre guarda la TV. Controllare che la distanza del bambino dall'apparecchio televisivo sia di almeno 3 metri. Verificare che la posizione dell’apparecchio sia centrale rispetto a chi guarda, che l’immagine sia poco contrastata (contrasto e luminosità delle immagini non alla massima intensità), che la stanza non sia completamente buia (presenza di luce dietro e sopra il televisore), che non ci siano riflessi sullo schermo, che il volume del suono non sia troppo intenso (entro 70 dB).

13)Controllare la qualità e la quantità degli alimenti assunti davanti alla televisione.

14)Dare il buon esempio. Genitori tele-dipendenti giustificano, agli occhi dei figli, l’uso indiscriminato della televisione.

Ed è, forse, quest’ultimo punto che trova molte difficoltà nella sua attuazione. Infatti, se è facile mettere in discussione le abitudini dei nostri figli, cercando di modellarle alle nostre esigenze e aspettative, non sempre siamo disposti a mettere in discussione le nostre abitudini. Lascio al lettore ogni ulteriore considerazione.

dott. Gilberto Angione

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 Il disegno infantile, tra magia e interpretazione

Ciò che colpisce osservando il bambino nei suoi primi anni di vita è il bisogno di fare esperienze che coinvolgono le competenze pratiche e manipolative. Inizialmente il bambino compie le sue azioni in maniera istintiva e casuale. Successivamente le sue azioni si orientano a degli scopi (quando, ad esempio, allunga il braccio per prendere intenzionalmente un oggetto). Questo processo di sviluppo continua e si sviluppa nella produzione grafica: all’inizio, verso i quindici mesi, il disegno del bambino è generato da gesti casuali. In questa fase i bambini, per caso o per imitazione, tracciano con la matita i primi segni grafici: ciò determina in loro soddisfazione al punto che cercano di ripetere il gesto che ha prodotto il segno. Gli adulti, manifestando apprezzamenti per le produzioni dei bambini, contribuiscono alla crescita della loro autostima e della loro sicurezza personale. Tuttavia è opportuno evidenziare che se si sta effettuando un’osservazione diagnostica è necessario, al fine di non viziare il risultato dell’osservazione stessa, non commentare la produzione grafica del bambino. Tale osservazione diagnostica, inoltre, dev’essere effettuata da uno specialista. Ciò per evitare, come vedremo meglio in seguito, il rischio di errori valutativi e improvvisazioni pericolose.

 In generale si può affermare che la conoscenza delle dinamiche evolutive e la possibilità di interpretare il linguaggio dei bambini consente agli adulti di costruire un canale comunicativo privilegiato, basato sull’osservazione e sulla comprensione. Tale osservazione e comprensione investono inevitabilmente il disegno infantile. Dico “inevitabilmente” in quanto la produzione grafica dei bambini è, di fatto, una forma di comunicazione non verbale, necessaria e innata.

 Tuttavia l’analisi della produzione grafica propone una considerevole quantità di variabili interpretative. Tale complessità deriva anche dal confluire dei diversi orientamenti e dalla molteplicità delle opere dedicate all’argomento. Molte di queste evidenziano come il disegno infantile sia uno strumento di rilevazione della maturazione percettivo-motoria e cognitiva, nonché un momento altamente espressivo dei vissuti profondi e dei problemi che difficilmente vengono espressi con la comunicazione verbale. In tale prospettiva, la conoscenza delle sequenze evolutive risulta fondamentale affinché non si consideri deviante ciò che è semplicemente il frutto della normale immaturità di un soggetto che sta crescendo. Infatti, condizione indispensabile per raggiungere un’adeguata capacità nel muovere la mano con la penna sul foglio è la maturazione del sistema nervoso (che presenta tappe ben definite in età non altrettanto precise). Ciò significa che lo sviluppo di certe competenze può avvenire precocemente, mentre altre possono ritardare.

 Sono stati delineati diversi schemi interpretativi del disegno, correlati alle caratteristiche psicofisiche e cronologiche del bambino. Più nel dettaglio possiamo affermare, analizzando anche il periodo pre-grafico, che fin dai primi giorni di vita il bambino osserva la realtà circostante, e a pochi mesi di età è in grado di accorgersi che è possibile produrre delle tracce. La fondamentale scoperta della traccia aiuta il lattante a capire che quando emette dei suoni, questi sono udibili anche dagli altri. Ed è questa una delle prime scoperte che gli consentono di sperimentare la possibilità di modificare la realtà esterna. Alcuni mesi più tardi il bambino scoprirà di poter produrre anche tracce di tipo grafico, altrettanto efficaci quanto quelle sonore e con nuove interessanti potenzialità: se la traccia sonora svanisce frettolosamente, quella grafica dura nel tempo, può essere osservata e il bambino può riferirne anche verbalmente.

 Dai sei/sette mesi fino ai 22 mesi circa l’attività grafica del bambino, che inizialmente possiede una natura prettamente istintiva, acquista progressivamente un carattere più intenzionale: il bambino, essendo in grado di coordinare meglio le sue capacità visive e motorie, diventa capace di orientare meglio il suo disegno. In altri termini, non è più l’occhio che segue la mano ma è la mano che segue l’occhio. In questi mesi il bambino produrrà prevalentemente linee circolari, orizzontali e verticali. I tracciati sono monolaterali: se vengono eseguiti con la mano destra saranno collocati sulla destra del foglio, a sinistra se il bambino usa la sinistra.

Alcuni studi definiscono questo periodo "SCARABOCCHIO CONTROLLATO".

 

                                               

 

Tali studi evidenziano, inoltre, che la forma circolare sia la prediletta a questa età: il bambino disegna cerchi utilizzando un movimento di base che coinvolge contemporaneamente spalla, braccio, polso, mano e dita (questo movimento, è utilizzato anche dalla Pedagogia Clinica nel metodo inter art). Si tratta di tracciati cosiddetti “centrifugati”: partono dal punto più vicino al bambino che disegna e si allontanano sia a sinistra sia a destra.

 Intorno ai tre anni e mezzo il bambino è già in grado di abbozzare la”FIGURA UMANA”. In realtà si tratta di una forma circolare (che rappresenta la testa) con due appendici inferiori (che rappresentano le gambe). È il cosiddetto “uomo girino”.

Progressivamente compariranno le braccia, come due fili attaccati alla testa, un altro cerchio che indica la pancia e alcuni caratteri del viso. Questi ultimi, inizialmente, avranno una collocazione casuale. Solo dopo alcuni mesi il bambino sarà in grado di posizionarli correttamente.

 

                                                

 

 In questo periodo il bambino è capace di far convergere l’espressione grafica con quella orale (accompagnando il disegno con una descrizione verbale). Nascono, inoltre, i primi tentativi di “grafismo scritturale”. Si tratta di quegli scarabocchi che tendono ad imitare la scrittura degli adulti.

 Il colore dei disegni è assolutamente personale e soggettivo, senza che ci sia congruenza con la realtà. Anche le proporzioni risultano non attendibili. Quest’ultimo elemento indica l’importanza e l’interesse che il bambino sente per determinati soggetti, situazioni o relazioni. Il disegno, in altri termini, mostra come il bambino vede la realtà. In questa ottica diventa quindi possibile interpretare le omissioni, le dimenticanze, le ripetizioni e le esagerazioni che sempre accompagnano le produzioni dei bambini.

Tuttavia è opportuno ribadire che il disegno è strettamente legato alla maturazione affettiva, intellettiva e sociale del bambino. Quindi, eventuali omissioni, esagerazioni, ecc., devono sempre essere interpretate alla luce di un’attenta e approfondita anamnesi. Si tratta, comunque, di particolari indicativi dello sviluppo psicomotorio dei bambini. Se, infatti, un bambino di cinque anni disegna ancora “l’uomo girino” ciò deve destare particolare interesse perché potrebbe indicare un ritardo nell’acquisizione dello schema corporeo e/o problematiche affettivo relazionali.

 A sei anni circa, il bambino abbandona il suo egocentrismo: non disegna più solo dal suo punto di vista ma considera la relazione logica fra gli oggetti, ed è in grado di disporre le immagini secondo un preciso ordine temporale. È attratto dal mondo esterno e si sperimenta rappresentandolo. Inizialmente ripeterà la stessa immagine fino a farla propria. Successivamente cercherà di arricchirla con maggiori particolari. Le prime case dei bambini, ad esempio, sono composte da un quadrato e da un triangolo. Successivamente compaiono le finestre, le tende, le maniglie, ecc.

Il colore è più realistico che in passato (anche se non ancora perfettamente corrispondente alla realtà). Attorno ai sei anni, inoltre, quasi tutti i bambini riescono a colorare restando all’interno di una figura.

 

 

A questa età compaiono anche le linee di terra e di cielo. A tal proposito è opportuno evidenziare che il bambino, disegnando queste linee, sta realizzando una riproduzione assai complessa della realtà: la osserva e la riproduce dopo aver raggruppato e organizzato gli elementi che la compongono.

 A nove anni i disegni diventano sempre più complessi. La figura umana, ad esempio, è definita, spesso è ripetuta perché ormai assolutamente sperimentata, ma nello stesso tempo adattabile e inseribile in nuovi contesti. Il bambino manifesta in questi adattamenti la sua creatività, la sua possibilità di elaborare conoscenze possedute. Il disegno acquista dinamicità, e il colore utilizzato diventa più realistico.

  Dopo i nove anni scompaiono gli schemi ripetitivi e si presentano modalità originali di rappresentazione contraddistinti, in genere, da una notevole quantità di dettagli. I soggetti rappresentati sono più proporzionati che nel passato. La linea di base si trasforma in strada, mare, sabbia, terra. Migliora, quindi la maturazione percettiva e intellettiva che consente al bambino di rappresentare in modo più preciso la realtà.

 A undici anni circa, nei disegni è presente la prospettiva e la tridimensionalità. La figura umana non è più standardizzata, compaiono le caratteristiche sessuali e il viso diventa più espressivo.

 Alla luce di quanto descritto fin qui diventa sufficientemente chiaro che il disegno, come forma di comunicazione non verbale, ha delle sue regole e una sua “grammatica”: l’uso dello spazio, i rapporti di grandezza, la pressione del tratto, il cromatismo, le cancellature, la sequenza degli elementi raffigurati, ecc. ne sono solo alcuni elementi. Tutto ciò ci dà l’idea della complessità dell’argomento e dell’opportunità, qualora si palesasse la necessità di interpretare un disegno, di rivolgersi a uno specialista (ad esempio un Pedagogista Clinico).

Tuttavia non bisogna dimenticare che il disegno è una produzione unica e irripetibile. Ogni disegno è un dono che i bambini fanno agli adulti. Fanno bene, quindi, quei genitori che conservano gli scarabocchi dei loro figli. C’è qualcosa di magico che lega il bambino al mondo (si potrebbe anche dire a tutti i bambini del mondo) in quanto lo scarabocchio è un gesto universale che appare simile in tutte le culture, in tutte le razze e a qualsiasi latitudine. 

 dott. Gilberto ANGIONE

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 Problemi psicologici dell’adolescenza

È nell’adolescenza che si realizza la personalità dell’individuo. Infatti l’adolescente, raggiunta la maturazione sessuale, assume il proprio ruolo, afferma progressivamente se stesso, sviluppa le capacità di pensiero astratto, affina l’uso dell’immaginazione, accentua lo sviluppo affettivo e sociale, conquista i giudizi di valore, si apre alla produttività.

Si tratta di un’età difficile in quanto la personalità dell’adolescente è quella di chi è alla ricerca di se stesso. Dopo gli undici/dodici anni il ragazzo è capace di operazioni mentali che si riferiscono alle possibilità logiche poste dal pensiero, per cui possiamo parlare di “pensiero ipotetico-deduttivo”: posto davanti ad un problema, l’adolescente è in grado di costruire l’insieme delle ipotesi possibili, e solo in un secondo momento decidere verso quale soluzione optare.

Preadolescenti e adolescenti utilizzano giochi di parole e di immagini mentali nei quali il “significante” si stacca dal suo “significato”. Inoltre è possibile che alcuni adolescenti ricorrano all’intellettualizzazione (ovvero ad un meccanismo di difesa di tipo psicologico che consiste nell’elaborazione astratta, oggettiva e filosofica dei problemi che in realtà sono personali e soggettivi) per non affrontare direttamente gli oggetti delle loro ansie e delle loro preoccupazioni.

 Con il sopraggiungere della maturità intellettuale, nell’adolescente cresce l’interesse per il proprio ambiente, cerca di cogliere il significato delle norme che lo regolano ed estende il suo interesse anche ad ambienti diversi dal suo. Questo ampliamento di orizzonti è caratterizzato da un serio impegno psicologico che determina, in ultima istanza, una seria ricerca della propria identità.

In tale contesto si inserisce la crisi adolescenziale, frutto di un’ansiosa ricerca di valori nuovi che lo compensino della perdita degli affetti che hanno caratterizzato i periodi precedenti: l’adolescente si accorge di essere cresciuto e di non poter più tornare ad essere un bambino. Quindi, per cercare di essere originale e creativo, la sua reazione di fronte ad ogni problema è estremamente critica: si vede costretto, per ritrovare il senso della sua identità, a rivedere ogni posizione nella quale si era identificato fino ad allora. Questo comporta un atteggiamento che appare come una vera e propria “volontà di indipendenza” di fronte agli adulti, che si traduce in comportamenti distruttivi piuttosto che costruttivi. È bene precisare che si tratta di una crisi benefica e necessaria, tale da indurre l’adolescente a rendersi indipendente da influenze, condizionamenti e preconcetti.

Diverso è il problema del rifiuto totale della cultura dominante. Questa forma di devianza, che colpisce soprattutto chi non ha potuto costruirsi una personalità sociale, dipende da svariati motivi. Tra i più comuni sono riscontrabili: instabilità emotiva; disturbi relazionali con la famiglia; alterazioni culturali quali lo sradicamento e la sottocultura; ragioni macrosociali quali la povertà, l’isolamento, le barriere razziali, la criminalizzazione.

La presenza di adulti significativi nella vita del ragazzo risulta molto utile. Adolescenti che non riescono a confidarsi con i propri genitori, possono ricorrere agli educatori o ad un amico di famiglia. Infatti il rapporto con gli estranei è meno vincolante sul piano emotivo: i sensi di colpa e il timore di dispiacere sono meno forti; inoltre, mancando reciproci rapporti affettivi, è più facile separarsi e mostrare disaccordo.

Ne risulta che gli obiettivi educativi più importanti nell’educazione adolescenziale, sono quelli relativi al superamento della crisi puberale; all’acquisizione di un giusto concetto di sé, il più possibile definito, differenziato e realistico; all’assunzione di un quadro di valori e di un sistema etico-sociale che guidi il comportamento; alla sollecitazione di motivazioni profonde, attraverso l’educazione alla responsabilità individuale e sociale; alla scoperta della propria vocazione professionale.

L’azione educativa deve far acquisire all’individuo quelle qualità, abitudini, capacità ed abilità che lo mettano nelle condizioni di essere autonomo e responsabile, in modo da poter contribuire razionalmente allo svolgimento della vita sociale in cui egli, fin dalla nascita, è compartecipe a tutti gli effetti.

dott. Gilberto Angione

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Separazione, affido congiunto e mediazione familiare

Quando il rapporto tra due genitori entra in crisi è opportuno tener presente che i figli captano con immediatezza istintiva il clima di disaccordo che si è instaurato. Tale disaccordo viene vissuto in forme dissimili secondo l’età, il sesso, l’educazione ricevuta, la qualità del legame con i genitori, i modelli culturali in vigore. Tuttavia, è bene precisare che la peggiore esperienza che i figli vivono non è tanto la separazione e l’eventuale divorzio, bensì il vivere in un contesto di conflittualità permanente: i figli di famiglie infelici, ma non smembrate, rischiano di essere più turbati di quelli delle famiglie disfatte dal divorzio o dalla separazione. In altri termini, sebbene la separazione dei genitori scuota nel profondo la vita di un figlio, non è necessariamente sinonimo di rovina, giacché una “buona” separazione è sempre meglio di una “cattiva” convivenza.

Parlando di separazione si assiste inevitabilmente al problema relativo all’affido dei figli. In questa sede vorrei soffermarmi sul cosiddetto "affido congiunto". Questo ha, oggi, un’applicazione su valori che rimangono ben al di sotto del 5%. Infatti, risulta di possibile attuazione solo con quelle coppie che sono state capaci di controllare gli effetti distruttivi del conflitto, che hanno saputo elaborare la separazione psicologica e che non si trovano costrette a ricontrattare le responsabilità e la distribuzione dei tempi con i propri figli. Si tratta di genitori capaci di mantenere una forma di rispetto reciproco, al dilà del fallimento del progetto di coppia; capaci di mantenere aperto quel canale di comunicazione e quel dialogo continuo sui figli.

Ma il più delle volte si arriva alla separazione coniugale in una situazione esacerbata, in cui il conflitto investe anche le relazioni genitoriali e le dinamiche tra genitori e figli. Ed è anche per questo motivo che l’affido congiunto è stato così disatteso ad appannaggio di quello esclusivo.

Oggi è al vaglio del Governo una proposta di legge che prevede l’affido congiunto quale soluzione privilegiata. Unica eccezione perché il giudice possa disporre l’affidamento esclusivo è rappresentata dall’accertamento di una condotta, da parte di uno dei dei genitori, che rechi pregiudizio al figlio.

Cosa prevede la proposta di legge? La potestà verrebbe esercitata dai genitori congiuntamente per le questioni di maggior rilievo. Mentre per l’ordinaria amministrazione, il giudice avrebbe la facoltà di individuare e assegnare a ciascun genitore differenti specifiche competenze, fatta salva la possibilità di accordo tra le parti. L’assegno di mantenimento assumerebbe, a tal punto, un’importanza secondaria. Entrambi i coniugi dovrebbero contribuire direttamente, per capitoli di spesa e in base al proprio reddito, alle esigenze dei figli.

Tuttavia, alla luce di quanto detto sopra, è difficile immaginare che una separazione possa avvenire in maniera non conflittuale e che l’affido congiunto possa, quindi, funzionare solo perché imposto dalla legge.

Degno di nota è, quindi, il riferimento che la proposta di legge fa in merito alla mediazione familiare: i genitori vengono aiutati a trovare una forma di progetto condiviso relativo alla crescita dei figli. Questa mediazione familiare, da porsi in contesto extragiudiziario, non deve divenire occasione per definire le capacità genitoriali, ma luogo e tempo riservato al padre e madre per riprendere il discorso intorno ai propri figli. Si tratta di aiutare i genitori al riconoscimento reciproco delle proprie capacità. A tal proposito è utile aiutare i genitori a comprendere che se la separazione è una dolorosa necessità, diventa altresì necessario riflettere sulla diversità del dolore degli adulti rispetto a quello dei figli. Quando la separazione dei genitori dilaga in un conflitto senza fine, esso diviene un attacco diretto allo sviluppo psico-affettivo dei minori. Il principio che sta alla base dell’affido congiunto, infatti, è che un fallimento della relazione di coppia non significhi fallimento del proprio ruolo di genitori.

Può essere utile, per comprendere l’ampiezza di un fenomeno che coinvolge spesso in modo drammatico i minori nella separazione dei genitori, considerare i dati che emergono dall’analisi delle richieste di aiuto pervenute a Telefono Azzurro. Nel corso del 2001, infatti, il 18,5% delle consulenze ha riguardato difficoltà legate alla separazione o al divorzio dei propri genitori. Il 58,6% di queste era riferita a bambini con meno di 10 anni di età. Questo perché i soggetti in fase evolutiva, che affrontano quindi un processo di crescita nel quale non si hanno ancora a disposizione tutti gli strumenti per delineare razionalmente gli eventi, trovano molte difficoltà ad  elaborare il trauma che inevitabilmente deriva dalla separazione dei propri genitori. Infatti, le richieste di aiuto calano numericamente se si considera la fase adolescenziale (10,6%). Probabilmente il disagio si attenua per uno spostamento, sul piano emotivo, dei bisogni. Nella fase adolescenziale, inoltre, aumenta l’interazione con i propri coetanei, e cambiano gli strumenti e i punti di riferimento nella soluzione delle problematiche.

Più nel dettaglio, è possibile rilevare alcuni gruppi di reazione alla separazione: nell’infanzia i bambini di due-tre anni palesano comportamenti improntati a regressione, disorientamento, sindrome d’abbandono; quelli di tre-quattro anni forniscono risposte meno astiose ma più nevrotiche, soffrendo il timore della separazione, inquietudini fisiche, senso di autoaccusa; a cinque-sei anni rivelano condotte ora aggressive ora ansiose. Nella fanciullezza, a sei-otto anni, è possibile rilevare depressione e paura, dovuti al timore di essere lasciati in balìa di se stessi e al timore della perdita d’amore; a nove-dieci anni i bambini sembrano più coraggiosi nel vivere la realtà, capaci di controllare l’angoscia, di razionalizzare la collera, disposti a intromettersi nei conflitti tra i genitori. In altre parole, manifestano tratti di maturità precoce che, però, si accompagna a una notevole fragilità psicologica. Negli adolescenti, infine, la separazione suscita disapprovazione, dolore e consapevolezza di essere impotenti di fronte all’evolversi delle cose. Questi ragazzi possono provare, quindi, collera nei confronti dei loro genitori che stanno deframmentando la famiglia in un momento così delicato della loro esistenza. Sentono, inoltre, che il loro avvenire coniugale è alquanto incerto. Alcune ricerche, infatti, evidenziano che tre figli su quattro provenienti da famiglie con genitori separati si separeranno a loro volta.

In generale si può inoltre affermare che i figli emotivamente più fragili  non riescono ad elaborare un proprio senso di “giustizia” e di equilibrio nei confronti di entrambi i genitori. Ciò li può spingere all’alienazione del genitore con il quale non hanno instaurato un rapporto di "alleanza".  Infatti, nei casi di separazione altamente conflittuale, i coniugi hanno reazioni che tendono a

·        mettere in atto ripetuti e vicendevoli attacchi, in forma indiretta, subito negati; 

·        porre il figlio in posizione di giudice dei comportamenti scorretti dell’altro;

·        manipolare le circostanze a proprio favore e a svantaggio dell’altro;

·        disapprovare l’altro genitore;

·        allineare i figli al proprio pensiero e giudizio;

·        minacciare un calo d’affetto nel caso il figlio si riavvicini all’altro genitore;

·        sottolineare costantemente di essere il genitore migliore, l’unico capace di prendersi cura dei figli, mentre l’altro è inaffidabile.

Esiste, quindi, una “buona separazione” e una “cattiva separazione”. Diventa scontata la considerazione che si può fare su quale di queste due forme di separazione è auspicabile, tenendo sempre presente che quello che conta veramente è l’interesse dei minori.

dott. Gilberto ANGIONE

 

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