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INDICE DEGLI ARGOMENTI TRATTATI:

Società dell'incertezza: le dipendenze giovanili

L’orientamento scolastico e professionale dal punto di vista Pedagogico Clinico.

L’individuo nel processo di invecchiamento in un’ottica olistica

Il disagio scolastico sommerso

I disturbi alimentari

Prevenire i disturbi del comportamento alimentare nella popolazione giovanile.

La paura dal punto di vista pedagogico clinico.

 

 

SOCIETA’ DELL’INCERTEZZA: LE DIPENDENZE GIOVANILI

 

INTRODUZIONE

 Recentemente  in Italia  e negli stati membri dell’Unione Europea è aumentata la preoccupazione per l’aggravarsi dei comportamenti tendenti ad appiattire le prospettive di vita dei giovani e a privilegiare quelle prive di progetti per il futuro .

I giovani evidenziano sempre più un disagio di fondo che serpeggia e dilaga tra di loro e che li spinge alla marginalità  senza rendersi conto di quanto stia  loro accadendo.

I fenomeni di disagio giovanile più frequenti e più diffusi come i comportamenti autolesivi o di gruppo sono costantemente al centro dell’attenzione dei mass media , che con la loro opera d’informazione incessante hanno stimolato e sollecitato quanti sono quotidianamente in contatto con questa fascia di popolazione, per  riflettere su quanto accade ogni giorno e cercare di osservare, approfondire , descrivere ed analizzare esaurientemente  e in tempi brevi fenomeni così tanto diversi e in così rapida evoluzione e quindi  arrivare a capire  quali sono  i costumi e gli stili di comportamenti sociali introiettati dagli adolescenti nelle moderne società industriali.

 

Aspetti sociali

 La molteplicità  di stimoli provenienti dall’ambiente circostante  propone costantemente messaggi e forme diverse di vita , che  trovano terreno fertile in una generazione di giovani  abbandonati a se stessi, che sempre più numerosi concepiscono la strada come teatro della propria manifestazione di disagio che distrugge la loro vita , impegnati a ricercare nell’immediatezza le risposte alla sopravvivenza   svuotando di ogni contenuto etico- morale la loro esistenza.

 Vari fattori concorrono a  far sì che tutto ciò avvenga:  la precarietà familiare, la carente educazione elementare, nonché l’indigenza e l’impreparazione per il lavoro,  lo sfruttamento e la discriminazione etnica o sociale. Si parla quindi  di disorientamento e devianza .

Si parla di”povertà giovanili” che sono molteplici e che sono legate allo stile di vita che vige nella nostra società. Queste varie forme di povertà bloccano lo sviluppo della persona e possono anche arrivare a distruggere tutte quelle possibilità educative che ciascuna persona ha nel corso della vita.

E’ possibile arrivare a tanto grazie all’utilizzo di sostanze stupefacenti , alcool e altro.

Da un rilevamento effettuato dal Ministero di Grazia e Giustizia si evincono i dati seguenti:

1.    Il numero dei ragazzi con età inferiore ai 14 anni denunciati all’autorità giudiziaria è raddoppiato tra il  1989 e il 1991.

2.    Si è sensibilmente abbassata l’età del primo contatto con stupefacenti, specie tra le ragazze.

3.    Lo spaccio è più frequentemente gestito da minorenni e il numero di minorenni assassini è passato da 41 nel 1990 a 56 nel 1991.

 

Fattori  ambientali / culturali che concorrono al disagio

 1.    Precarietà familiare.

 La  famiglia patriarcale, in epoca pre-industriale, ha sempre rappresentato un ambiente sociale privilegiato, attento e disponibile all’ascolto dei bisogni non materiali dei propri figli, basato su valori inconfutabili  di sostegno e solidarietà in termini relazionali ristretti , privilegiando la trasmissione di esperienze tra generazioni con chiare valenze educative e culturali  Ad essa  si è contrapposta, nella società industriale moderna , l’attuale famiglia nucleare  che non solo ha perso gran parte di queste funzioni educative, ma non è in grado di fornire  un adeguato appoggio emotivo e un sufficiente investimento affettivo verso i figli.  

Per necessità economiche o per ambizioni sociali, spesso entrambi i genitori si allontanano

dall’ambito familiare per l’intera giornata, affidando i propri figli ad asili nido,  a scuole materne, o ad altre agenzie educative e a giovani baby sitter’s  occasionali , spesso inesperte e demotivate.

Il bambino man mano che cresce si viene a trovare solo con se stesso, abbandonato per molte ore senza custodia  davanti alla televisione,  i cui programmi non sono sempre educativi e adatti all’infanzia o aggregato a gruppi di coetanei poco coinvolti in attività istruttive e/o ricreative.

Un rapporto deteriorato con la famiglia  e le agenzie socializzanti comportano una mancata acquisizione delle norme culturali di convivenza e di conseguenza un inceppamento dei meccanismi sociali che regolano il processo di socializzazione ed integrazione che  fa assumere  agli adolescenti comportamenti errati, antisociali , anticonformisti. La mancata introiezione delle regole sociali associata a quelle morali  che vengono così alterate, destabilizzano l’individuo e la società insieme

alla più grande lusinga della modernità : la continua esaltazione della libertà  e del rischio ,da cui scaturiscono una grande fragilità individuale, una grande frammentarietà, disorientamento e insicurezza che sfocia nella violenza come mezzo di comunicazione.

2.    Carente educazione elementare

 Recenti osservazioni confermano che le leggi sull’obbligo scolastico sono eluse( basta d'altronde anche solo attenersi alle pubblicazioni sia cartacee che filmiche ), gli adolescenti seguono sempre più spesso modelli comportamentali mutuati  dai mass media, i loro “miti” sono sempre più giovani adulti “rampanti” che hanno raggiunto in fretta una buona posizione economica perseguita senza scupoli e con improntitudine.

Il valore primario introiettato dai giovani di oggi è quindi la ricerca del piacere individuale, esclusivo proprio ma non solo delle classi più agiate, da perseguire con tutti i mezzi leciti e non.

Nelle famiglie manca sempre più un investimento affettivo privilegiato, un modello relazionale di sviluppo e un chiaro progetto di educazione elementare sia dell’infanzia sia dell’adolescenza.

La scuola non è ben attrezzata per combattere l’evasione scolastica. L’insegnamento è ancora prettamente nozionistico , manca talora una sufficiente preparazione e un’adeguata motivazione da parte degli insegnanti per affrontare i numerosi temi e i tanti problemi di crescita emotiva e di maturazione sociale dell’adolescente, abbandonato sempre più spesso a  se stesso senza supporto affettivo e relazionale, né in casa , né a scuola.

L’inadeguatezza dell’insegnamento quasi del tutto nozionistico, non conduce ad un’adeguata formazione professionale e rende sempre più difficoltoso e precario l’inserimento nel mercato del lavoro. Sono molteplici le situazioni che comportano anomalie comportamentali espresse dai giovani. Spesso ci troviamo di fronte a ragazzi cresciuti nel corpo ma non emotivamente maturi. Sono sportivi, sani, ben vestiti, con indumenti firmati, ma non hanno ideali, non hanno obbiettivi di vita , sono insoddisfatti e annoiati spesso soli in un mondo ostile.

A volte non hanno figure parentali con cui confrontarsi , cui chiedere aiuto e conforto. Da qui nasce anche il prolungamento dell’adolescenza sul piano emotivo- relazionale e sociale e per molti anni continuerà a dipendere dalla famiglia di origine, non sempre ben tollerata.

D’altro canto i genitori presi dal senso di colpa per non aver saputo stabilire un certo legame affettivo, si rendono disponibili  a fornire surrogati d’affetto che non possono sostituire un sincero rapporto affettivo, né riempire il vuoto creato dal mancato sostegno emotivo.

 3.    I rapidi cambiamenti sociali ed economici , i conflitti civili , la povertà l’indigenza, la non fissa dimora e l’emarginazione  dalla società ha aumentato, come visto in precedenza, le probabilità che l’alcool e le sostanze illegali   possano giocare un ruolo fondamentale e distruttivo nelle vite dei giovani, che dipendono , che hanno bisogno di qualcuno o di qualcosa che soddisfi una loro esigenza vitale: si tratta di un benessere fisico o un equilibrio psicologico.

Esistono quindi dipendenze sane  e non .

 Si è sempre ritenuta una grande conquista della società moderna la riduzione della mortalità infantile in epoca neonatale e la vittoria sulle principali malattie infettive.

E’ sconcertante però sapere che mentre nel 1945 fra le cause di morte nell’infanzia dominavano le malattie infettive, nel 1965, ma anche ai nostri giorni, la principale causa di morte è rappresentata da incidenti . Perché corrono lungo le strade? Forse  incalzati da una sottilissima angoscia ricercano  nel gesto pericoloso, nel proibito ciò che può uccidere quella considerazione per se stessi che non hanno potuto trovare altrove.

La corsa assume il senso della sfida contro quel fantasma grigio che sembra volerti attirare in una dimensione piatta e uniforme in cui non puoi essere ammirato.

 

NEW ADDICTIONS

Esiste anche un altro gruppo di dipendenze legate a oggetti o attività non chimiche.
Si tratta delle cosiddette nuove dipendenze o, per usare un termine inglese, delle "new addictions", cioè di quei comportamenti socialmente accettati, tra i quali la dipendenza dal gioco d’azzardo, da internet, dallo shopping, dal sesso, dal lavoro e dalle relazioni affettive, che, ripetuti ossessivamente, fino all’estremo o in modo continuamente vano e insensato, smettono di svolgere il loro ruolo sociale per schiavizzare l’essere umano. Tali forme di dipendenza hanno effetti altrettanto preoccupanti ed a volte persino devastanti.

 

                                                              Dott.ssa Giulia Sadile

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L’orientamento scolastico e professionale dal punto di vista Pedagogico Clinico.

 “Orientamento scolastico e professionale”. Perché questa tematica?

 Attualmente vivo l’esperienza di orientamento scolastico  nella doppia funzione di Pedagogista Clinico e di docente di lettere , attenta a non sostituirmi  ai ragazzi nella loro scelta , di cui devono essere  protagonisti e non fruitori di esperienze altrui , scelta che deve essere in definitiva  la “loro scelta”, consapevole e vissuta in prima persona .

Lo scopo è solo quello di far conoscere all’utenza la molteplicità delle modalità d’intervento su uno stesso tema ( qual è l’orientamento visto che può essere trattato da operatori diversi con competenze diverse) e il desiderio di evidenziare il ruolo che il Pedagogista Clinico può avere e gli strumenti che può utilizzare nel settore dell’orientamento scolastico e professionale.

Prima di entrare nel merito della questione sull’orientamento scolastico prima e professionale dopo,  vorrei fare una breve premessa di carattere generale.

 

PREMESSA SULL’ ORIENTAMENTO SCOLASTICO E PROFESSIONALE.

Fino agli anni ’70-80,  l’unica azione di orientamento avveniva  a livello familiare. La famiglia , infatti, svolgeva una funzione di orientamento post-scolastico e, condizionata dalle necessità economiche e dalle esigenze familiari, non dava  la possibilità ai propri figli di scegliere liberamente il proprio futuro non rispettando  le attitudini e le prospettive future.

Quindi trent’anni fa il problema della scelta della scuola superiore non è che non esistesse, ma era solo meno evidente, proprio perché la famiglia di stampo autoritario sceglieva per i propri figli il percorso scolastico da intraprendere senza ricevere obiezioni alcune.

Intorno agli anni ’80-90 in ambito scolastico si sono manifestati: il fenomeno della dispersione scolastica  che aveva raggiunto livelli allarmanti; il condizionamento della crescita culturale causato dal tessuto socio-economico poco stimolante, specie per quei ragazzi che vivevano nei quartieri meno abbienti e il fenomeno delle separazioni e quindi della perdita di punti di riferimento fissi e importanti per la crescita personale di ciascuno, considerati generatori di insicurezze e di caos.

Partendo da queste considerazioni si può ben capire come l’ente comunale e le persone preposte si siano attivate per analizzare tali problematiche e per trovare valide soluzioni. Inoltre, verso la fine del secolo scorso, varie agenzie educative, tra cui la scuola, hanno messo in pratica i primi progetti d’orientamento.

 

PREMESSA SULL’ORIENTAMENTO PROFESSIONALE

Lo sviluppo industriale nei primi anni del Novecento fece sorgere la necessità prima in Usa e poi in Europa di iniziare ad interessarsi di azione orientativa specializzata non per rispetto dell’essere umano nella sua unicità e originalità , ma solo per accertarsi di raggiungere un incremento produttivo e uno sviluppo economico maggiore dell’impresa industriale.

Si anticipava così il concetto che “il lavoratore contento produce di più.”

 

L’ORIENTAMENTO SCOLASTICO OGGI

La problematica attuale è diversa rispetto a quanto detto precedentemente in quanto la famiglia ha subito una profonda trasformazione, da autoritaria che era è diventata affettiva e protettiva. Attualmente la diade genitoriale è orientata a fornire ai propri figli  protezione e sicurezza soddisfacendone i bisogni affettivi, economici e sociali. In tale contesto i figli sanno di poter esprimere liberamente  le proprie scelte, condivise dai genitori, rispondendo così appieno ai propri bisogni che non sempre corrispondono con i consigli orientativi provenienti dalle altre agenzie educative, tra cui la scuola.

Questo è un altro importante cambiamento: il momento della scelta dell’Istituto Superiore, coincidendo con la fase dell’adolescenza  crea una grande confusione interiore nei ragazzi, confusione ,a parer mio, generata anche dal fatto che non sempre le scelte  operate dagli studenti coincidono sia con le aspettative dei genitori, i quali chiedono ai figli molto di più delle loro reali capacità, sia con le indicazioni che vengono formulate dagli insegnanti in base al percorso scolastico avuto dallo studente che tendenzialmente sono più basse delle aspettative familiari.

Per sopperire a questi inconvenienti, varie agenzie educative  e varie figure professionali  si sono preoccupate di  dare il loro contributo riguardo gli interventi proponibili, attuabili con modalità e competenze diverse

 

L’ORIENTAMENTO DAL PUNTO DI VISTA PEDAGOGICO CLINICO.

 

In questi ultimi anni il termine orientamento si usa più frequentemente  a livelli differenti e con approcci  diversi che gli esperti professionisti utilizzano nel “fare orientamento”.

Primo obiettivo di questo intervento è quello di chiarire cosa s’intende per orientamento e  come la pedagogia clinica può contribuire col suo approccio e i suoi metodi.

In generale fare orientamento significa aiutare le persone di ogni età  a costruire percorsi appaganti sia in ambito formativo sia professionale.

Le attività di orientamento riguardano percorsi e scelte scolastiche, obiettivi professionali e inserimento lavorativo.

Il contributo che posso dare come Pedagogista Clinico è attinente  l’approccio con cui cominciare l’azione orientativa e in particolare l’aspetto del colloquio individuale di orientamento. Non è che sia una modalità più valida di altre, ma è semplicemente diverso il modo di  “fare orientamento” perché si segue  uno stile proprio.

Orientare, per un pedagogista clinico, è dare la possibilità  all’individuo di decidere liberamente , di poter  riflettere e riconoscere dentro di sè le proprie risorse, le proprie capacità e le proprie aspirazioni per arrivare  a scegliere il proprio percorso  scolastico e professionale in modo autonomo e nella maniera più originale possibile che lo contraddistingua da chiunque altro.

Ognuno porta dentro di sé il proprio “progetto” e i propri obiettivi . Quindi,  il compito del  Pedagogista Clinico “orientatore” è  quello di stare con l’altro  per aiutarlo ad affrontare processi di transizione fondamentali, come possono essere  il cambio di scuola o di lavoro;  è quello  di risolvere il problema  per proseguire nel proprio personale percorso di vita ed è quello di  aiutare l’altro a partorire  quel progetto, che è dentro di noi. Come? Quali  attività e  quali strumenti attivano il progetto che è già scritto dentro di Noi ? Le attività di orientamento si possono svolgere attraverso colloqui individuali , bilanci di competenze di gruppo, brevi corsi o incontri dedicati alle scelte formative , professionali e di ricerca di lavoro. Il colloquio si svolge col metodo Reflecting, basato sul principio che è possibile giungere ad una comprensione profonda di sé solamente per mezzo della riflessione.

L’indagine, di cui il pensiero è strumento e oggetto, permette all’uomo di raggiungere la sua libertà, la sua consapevolezza interiore e lo introduce ai significati profondi della realtà fino a renderli “visibili”. Un criterio maieutico, dunque , un’opportunità per riflettere su di sé,  sul proprio esistere, fino ad acquisire una consapevolezza delle motivazioni che determinano le proprie scelte e le proprie decisioni. L’esperienza che ne deriva favorisce  il riconoscimento di sé come persona, avvia ad  una crescita personale nella libertà, agevola la  scoperta  e lo sviluppo delle proprie potenzialità latenti. Si tratta di conoscere se stesso mediante una modalità che conduce a partorire la propria verità, aiuta la persona a decifrare quel geroglifico, apparentemente inintelligibile, del suo passato e del suo presente, è una rielaborazione mediante la riflessione. Non si troverà ausilio nella parola del pedagogista clinico il quale non è chiamato ad ascoltare le richieste del soggetto per poi aiutarlo a chiarire i reali interessi ed elaborare insieme una risoluzione. Il P.C. non pone domande non dà risposte . Non è un incontro tra due  persone che trova nello scambio di idee una soluzione. Non è una consulenza o un’assistenza , né un’occasione per dare buoni consigli . Questo è un metodo in linea con tutti coloro che nella storia si sono pronunciati dicendo: ” Non mi dare consigli so sbagliare anche da solo”; e come diceva Galileo: “Non puoi insegnare qualche cosa ad un uomo, puoi solo aiutarlo a scoprirla dentro di sé.”

Altro  strumento abbastanza utile per la scuola è la mediazione, proprio in questo particolare momento in cui è attraversata da due istanze sociali contraddittorie: essa è chiamata da una parte ad assolvere il ruolo di istruire e trasmettere orientamenti e valori tradizionali, dall’altra è impegnata a fronteggiare le profonde trasformazioni sociali e culturali che la pongono al centro delle aspettative di cambiamento di gran parte delle famiglie. Tutto ciò conduce al paradosso che la scuola, pur essendo assillata da pressanti richieste di cambiamento, non può allontanarsi troppo dall’ordine sociale costituito dal quale dipende.     

                                                                           Dott.ssa  Giulia Sadile                                                         

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L’individuo nel processo di invecchiamento in un’ottica olistica

Quarant’anni fa Gigliola Cinguetti  cantava la canzone “Non ho l’età” riferendosi all’età dell’amore. Lei aveva solo sedici anni. Il titolo di questa canzone  si presta per asserire che il  tempo passa ma allo stesso  tempo, rapportato alla vita di una persona, sembra non passi mai; invece, esso  scorre inesorabile per tutti lasciando i segni del suo passaggio in maniera diversa, soggettiva, dipendente sì dal patrimonio genetico ereditato da ciascuno da noi, ma dipendente anche, a mio avviso, dal modo di “essere” di ciascuno di noi e dal modo di porsi in relazione con se stesso e con la collettività e dallo stile di vita. Dipendente anche e soprattutto dall’ambiente in cui avviene la relazione; se è un ambiente stimolante,propositivo ,dinamico o frenante ,statico,senza inviare stimolazioni adatte alla crescita armoniosa di ciascuno di noi.

La nostra vita si articola in quattro fasi fondamentali: l’infanzia, la fanciullezza, l’adolescenza e la maturità.

Ognuna di queste fasi riveste la sua importanza per quelle seguenti.

Uno sviluppo armonico dell’infanzia fa sì che la fanciullezza sia altrettanto armoniosa e serena a meno che non intervengano fattori esterni atti a comprometterne non solo la serenità ma anche l’aspetto fisico vero e proprio. Riveste una notevole importanza l’adolescenza come fase di passaggio dalla fanciullezza alla vita da adulto, età difficile perché la personalità dell’adolescente è quella di chi è alla ricerca di se stesso. Una volta superata questa soglia non si vede l’ora di crescere per entrare nel mondo dei “grandi”,  degli adulti, mondo dal quale non si ritornerà più indietro come del resto non si torna indietro nelle altre fasi. E’ per  questo motivo che fin da giovani dobbiamo “investire” una parte di noi e delle nostre energie a costruirci un futuro stabile, continuo non solo dal punto di vista materiale, ma soprattutto fisico,  spirituale e umano vale a dire olistico.

Gli investimenti che si fanno nella vita non devono essere solo di natura economica, non bisogna solo pensare a mettere da parte una quantità di soldi per … e per quando arriverò in quel periodo particolare della vita che non so cosa mi riservi e che quindi richiederà forse l’aiuto d’altre persone, no; gli investimenti soprattutto sono da riferirsi alla singola persona, alle persone che dovranno beneficiarne  specie in quella fase della vita che potrebbe riservare delle brutte sorprese. Gli investimenti  si riferiscono ad una sorta di prevenzione a lungo termine che permettono a tutti di vivere se non proprio nell’agio economico e quindi materiale, soprattutto nell’agio personale, stare bene  con se stessi per poi continuare a stare bene con gli altri e continuare ad  essere parte della società, se non  attiva dal punto di vista economico, (parte su cui poter investire delle risorse per la costruzione di una società del futuro che fa affidamento sull’esperienza di vita di quanti ormai non possono più far parte di un sistema economico, )  ma di un sistema morale sì. Questa sorte di prevenzione dovrebbe avere la funzione di evitare la sorpresa di svegliarsi un bel giorno, il giorno X, dopo aver dato tutto di sé per il lavoro, la famiglia, gli affetti e ritrovarsi a confronto con una realtà che dal punto di vista estetico ti fa esclamare: ”Non ho più l’età” per fare questo sport, questa vita ecc.

L’età è sempre quella giusta per ogni cosa, fatta nel modo in cui la persona  si sente di fare. Certo è da tener presente che  in ogni età ci sono dei limiti che occorre conoscere e rispettare per il proprio bene. Vale a dire, conosco persone di 50 anni che fanno 80 km in mountain bike, ma perché sono assolutamente sani, come conosco mia madre che all’età di 85 anni nuota ancora volentieri  come volentieri guida ancora la sua auto. La cosa non sarebbe possibile se avessero per esempio problemi di cuore. Esistono due tipi di persone: quelli che si lasciano andare  specie dopo aver raggiunto determinati traguardi e quelli che non vogliono invecchiare e quindi rifiutano i cambiamenti a cui inevitabilmente si è soggetti, ma che riescono ad affrontare meglio.

Si pongono nei confronti di questa delicata fase della propria vita con lo spirito di chi ha ancora molto da dare e da ricevere, quindi in un certo senso sembrano  voler fermare il tempo ma contemporaneamente riescono  a fare delle cose che si erano prefissate di fare in quel particolare momento della propria vita e le fanno. Certo che bisogna stare in salute!

A cinquant’anni se da giovane ho sempre corso potrò continuare a farlo, come potrò continuare a divertirmi  senza pensare che c’è un tempo ben definito per ogni cosa. E’ importante fare, sì, ma soprattutto il modo in cui si fa che può dover cambiare l’evoluzione di noi stessi in quel determinato momento, nel fare quell’attività o nello svolgere un determinato compito. Significa che bisogna  uscire dagli stereotipi che per esempio ci fanno credere che quando ho 50 anni è inutile che porti biancheria sexy per mio marito perché ogni tipo d’istinto è morto. Gli stereotipi a volte distruggono le motivazioni e gli input che abbiamo dentro perché ci fanno credere che siamo troppo vecchi per quella cosa. La parola chiave è l’armonia con se stessi e con gli altri, perché neppure è opportuno scandalizzare con il solo obiettivo di andare contro corrente e non perché ci si sente di fare quella cosa. Non si deve far morire in ciascuno di  noi il bambino che un tempo, giocando,  imparava ad entrare nel mondo dei grandi, adesso giocherà per rimanere nel mondo dei grandi, quel bambino che ha fatto e fa di noi un essere pronto a tutto in qualsiasi momento, per darci la giusta carica emotiva e fisica atte a sostenere le difficoltà che di volta in volta si presenteranno e che ci metteranno alla prova per vedere se siamo in grado di schivarli o meno o prenderli in pieno viso. Quindi il miglior investimento che si può fare nella vita di una persona  è quello di non perdere mai di vista se stessi. Bisogna accettarsi per quello che siamo e quando necessario adeguarsi e migliorarsi per vivere una vita armoniosa e serena, che non lo sarà mai in pieno ma che potrà esserlo. Importanza particolare va data agli “stili di vita” da cui dipende lo stato di salute futuro  di ciascuno di noi. L’alcolista, il fumatore e altre forme di  trasgressioni,  anche di tipo alimentare, sono causa di molte malattie che poi condizioneranno la vita di una persona.

Il fenomeno dell’invecchiamento pur rimanendo un fatto biologico universale si carica di significati secondo le culture e diviene specchio delle diverse società. Nelle società orientali, in Cina per esempio la vita è intesa come via come sforzo continuo di auto-realizzazione ,crescita non solo intellettuale ed  etica ,ma anche lo sviluppo del corpo. L’anziano è inteso come l’espressione di perfezione da raggiungere e quindi rispettato. Nella società tradizionale occidentale i pochi anziani che sopravvivevano erano onorati e rispettati. La società industriale ha inciso molto sui modelli di vita, perciò in essa l’anziano si è trovato a vivere in condizioni di inutilità. Nell’era della globalizzazione quale sarà nel nuovo contesto la concezione di anziano?Un po’ tutti concordano affermando la necessità di restituire ad esso  indipendenza,creatività relazionale e solidarietà.

In ogni cultura  specie in quella attuale, se vogliamo anche dell’immagine, della perfezione, del bello in quanto tale, i segni che il tempo lascia su ognuno di noi, le tanto temute rughe, ad esempio, sono causa di abbassamento di umore, di stati depressivi che ci fanno esclamare:”Sto invecchiando” senza tener conto che comunque l’invecchiamento è un processo di selezione  naturale, graduale, individuale che ha la sua importanza,che risente comunque l’influenza sia negativa sia positiva della vita passata e che condiziona la vita presente e futura. Questo processo  può essere in qualche modo frenato non sono chirurgicamente ma soprattutto osservando e vivendo una vita che per quanto a volte difficile e complicata, permette di prendersi cura di sé. Dall’accettazione di sé e del proprio aspetto fisico-estetico dipende il mio morale e viceversa. Più mi stimo e  mi amo, più sto bene e affronto bene ogni avversità.

Qui bisogna riflettere….

Dalla prevenzione alla cura per quelli che ormai non sono più in grado di poter gestire al meglio la propria esistenza. Voglia di volerla migliorare chiedendo aiuto a chi ne può dare ed è in grado di farlo.

Gli anziani non devono vivere emarginati dalla società, devono far parte integrante…sono una miniera d’oro d’inestimabile valore. Devono vivere non solo tra i loro  pari ma soprattutto in mezzo ai ragazzi,  ai giovani, ai bambini, perché è da loro che ricevono la linfa vitale e ad essi possono fare da guida . Questo discorso vale naturalmente  per quelli che raggiungono una certa età in buona salute. Non possiamo non considerare che ci sono molti anziani colpiti da malattie che perdono la loro autonomia e quindi sono costretti a vivere, anche per esigenze logistiche, presso i centri di assistenza.

·        I centri si suddividono in:

·        Centri diurni- di aggregazione :si propongono di aiutare  le persone anziane  a mantenere efficienti le abilità sia cognitive che pratiche;

·        Centri diurni integrati per anziani in situazione di non autonomia o di parziale non autosufficienza;

·        Case di riposo.

 

Si potrebbe pensare ad applicare alcune strategie pedagogico cliniche da attuare in  un laboratorio”generazionale “ per migliorare le capacità mnestiche dell’anziano, per non perdere la disponibilità motoria e la capacità relazionale con le altre generazioni.

 

                                                                             Dott.ssa Giulia Sadile

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Il disagio scolastico sommerso

     Sempre più spesso il distacco dalla famiglia, il relativo ingresso nella scuola, evidenziano problemi affettivo-relazionali che andrebbero affrontati con tempestività per ridurre il disagio agli interessati direttamente coinvolti in tempi abbastanza brevi.

    Le cause sono molteplici e non sempre d’immediata individuazione da parte degli operatori scolastici. Questi spesso intuiscono le problematiche che sottendono il disagio ma non possono far altro che segnalare la situazione alla famiglia chiedendo l’intervento di una figura professionale competente quale il Pedagogista Clinico presente sul territorio.

   I soggetti bisognosi di aiuto sono di età compresa tra i 6 e i 15 anni, sono sempre in crescente aumento e manifestano, spesso, le medesime caratteristiche: difficoltà d’apprendimento, difficoltà di linguaggio, difficoltà nelle relazioni con i pari e con gli adulti e un marcato disinteresse per la scuola.

   Si tratta di soggetti che si chiudono in se stessi, si tengono in disparte dal gruppo, fanno fatica ad inserirsi ed accettare le regole di convivenza civile. Alcuni assumono anche atteggiamenti poco corretti nei confronti dei compagni e dei docenti verso i quali manifestano un costante atteggiamento di sfida, se non si sentono capiti.

   I soggetti a disagio hanno bisogno d’interventi specialistici adeguati, del sostegno della famiglia, dell’assistenza di operatori scolastici e di quanti sono preposti alla loro formazione.E’ necessario porre attenzione a tutto il contesto sociale in cui sono inseriti per creare una sinergia tra le parti.La necessità è imposta dal fatto che non si può prescindere dall’approccio olistico in quanto la persona è tale per una serie di scambi, relazioni, situazioni, interne ed esterne che non possono essere ignorate per offrire loro un valido percorso d’aiuto. Quindi hanno bisogno di un percorso educativo capace di permettere ad ognuno di governare i propri sentimenti, utilizzare la propria volontà e agire liberamente nel rispetto di sé stessi e degli altri. Quindi occorre arrivare tempestivamente a formulare una diagnosi pedagogico-clinica per poter iniziare un percorso rieducativo intervenendo in modo completo per ridare alla persona il controllo della propria vita affettiva sociale ed emotiva, non trascurando nessun aspetto.

 dott. Giulia Sadile

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i disturbi alimentari

 Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza è segnato da una serie di eventi essenziali, quali i cambiamenti fisici, psicologici e sociali,  per la formazione di una identità duratura.

I mutamenti fisiologici che colpiscono entrambi i sessi cambiano l’architettura del loro  aspetto, dando una nuova forma  al proprio corpo. Queste trasformazioni possono essere vissute male e in modo diverso a seconda delle informazioni che posseggono,delle aspettative  e dei sentimenti provati.

I ragazzi vivono i cambiamenti legati all’aumento della massa muscolare con sentimenti positivi, perché assumono un aspetto mascolino e forte. Le ragazze, invece, si sentono maggiormente insoddisfatte per l’aumento del grasso corporeo, perché motivo di conflitto con il loro ideale di corpo perfetto.

Come si può intervenire dal punto di vista pedagogico-clinico per evitare questi spiacevoli problemi? Bisogna preparare i ragazzi a questi cambiamenti, perché da soli non sono capaci di darsi  una corretta spiegazione.

Sia la scuola che la famiglia hanno questo ruolo con competenze diverse ma con lo stesso obiettivo: dare le dovute spiegazioni sul fenomeno del tutto naturale a cui tutti siamo sottoposti  sdrammatizzando alcune situazioni di disagio e smussando quelle aspettative che potrebbero andare ad aumentare i problemi che negli ultimi anni risultano associati al peso e all’alimentazione:mi riferisco all’obesità e alla ricerca di magrezza che può sfociare in disturbi alimentari gravi,quali l’anoressia e la bulimia.

Nasce sempre più specie nelle ragazze un senso d’insoddisfazione: i due terzi di esse iniziano diete scorrette e pericolose dal punto di vista delle metodologie per modificare il proprio corpo e renderlo magro, in un’età in cui, invece, bisognerebbe stabilizzare sane abitudini alimentari  per prevenire malattie future. Il “disturbo alimentare”è “un male di vivere” che forse nasce da un rapporto distorto con la famiglia e con gli altri, ma prima di tutto con sé stessi e con la propria individualità. Può colpire soggetti giovani ma anche trentenni e a volte trentacinquenni.

Il clima culturale in cui oggi crescono le ragazze ha un peso fondamentale nell’instaurarsi della malattia. Il  ruolo della donna vissuto  con confusione, il modello della donna di successo, competitiva e autonoma cui vengono associati la magrezza la forma fisica e l’autocontrollo: si tratta di  malattie vere e proprie che non si diagnosticano subito, perché all’inizio si possono confondere con una semplice astenia o con la voglia di perdere qualche  chilo. Infatti all’inizio della dieta al dimagrimento non segue un calo di forze fisiche, anzi aumenta la resistenza alle fatiche specie quelle di tipo intellettuale. Le prestazioni scolastiche non subiscono cali, aumenta l’umore che diventa quasi euforia, migliorano le prestazioni sportive e tutto procede bene. Ad un certo punto però il ciclo mestruale sparisce, e comincia la preoccupazione da parte delle mamme. E’ proprio la scomparsa di tre cicli a far sì che si possa diagnosticare l’anoressia nervosa. Questo è quanto stabilisce il D.S.M. IV  pubblicato nel 1994 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders).

La bulimia alla base ha gli stessi valori culturali che sono alla base dell’anoressia, ma ha anche alla base una difficoltà di rendersi autonome dalla famiglia d’origine, oppure s’instaura dopo l’anoressia, là dove c’è un carattere più impulsivo e meno volitivo.

Quindi si cede alla “tentazione” del cibo abbuffandosi e poi si ricorre al vomito per rimediare. In questi casi risultano più gravi i problemi fisici che nell’anoressia, meno evidenti e più subdoli,  segnali da non sottovalutare perché bisogna intervenire al più presto.

dott. Giulia SADILE

 

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Prevenire i disturbi del comportamento alimentare nella popolazione giovanile.

La corsa al benessere economico e al suo mantenimento ha spezzato i ritmi biologici  dell’uomo , sia riguardanti l’alimentazione che il sonno/veglia, creandogli  inconsapevolmente danni anche  gravi con  ripercussioni  sociali.

Sappiamo che la nostra vita si articola in quattro fasi fondamentali (l’infanzia, la fanciullezza, l’adolescenza e la maturità) ognuna delle quali  riveste la sua importanza per quelle seguenti.

Uno sviluppo armonico dell’infanzia influisce positivamente sia sulla fanciullezza sia sull’adolescenza a meno che non intervengano fattori esterni atti a comprometterne non solo la serenità ma anche l’aspetto fisico vero e proprio.

 

Gli stili di vita , rivestono una notevole importanza per il successivo stato di salute di ciascuno di noi. Riveste la stessa importanza l’adolescenza , intesa come fase di passaggio dalla fanciullezza alla vita da adulto, fase come già sappiamo difficile,  segnata da una serie di eventi essenziali quali i cambiamenti fisici, psicologici e sociali,  per la formazione di una identità duratura.

I mutamenti fisiologici  colpiscono entrambi i sessi cambiando l’architettura del loro  aspetto e  dando una nuova forma  al loro corpo. Queste trasformazioni possono essere vissute male e in modo diverso a seconda delle informazioni che posseggono, delle aspettative  e dei sentimenti provati.

I ragazzi vivono i cambiamenti legati all’aumento della massa muscolare con sentimenti positivi, perché assumono un aspetto mascolino e forte. Le ragazze, invece, si sentono maggiormente insoddisfatte per l’aumento del grasso corporeo, perché motivo di conflitto con il loro ideale di corpo perfetto. Nasce sempre più, specie nelle ragazze, un senso d’insoddisfazione: i due terzi di esse iniziano diete scorrette e pericolose dal punto di vista delle metodologie per modificare il proprio corpo e per renderlo magro, in un’età in cui, invece, bisognerebbe stabilizzare sane abitudini alimentari  per prevenire malattie future quali i disturbi alimentari.

Nella vita quotidiana mi capita spesso,  specie nelle mense scolastiche  di assistere a scene continue di rifiuto del cibo.

A questo proposito sono stata contattata da una madre preoccupata per la figlia dodicenne che rifiuta il cibo sia a casa che a scuola. Alla domanda perché non mangi la ragazzina le ha risposto testualmente:”Non mangio perché sono a dieta, devo curare la mia immagine”.

Parto da qui per calarmi nel merito della tematica: “ Prevenire i disturbi del comportamento alimentare nella popolazione giovanile”: “prevenire anziché curare”.

Premesso che la nostra è la società dell’immagine e dovunque guardiamo, osserviamo immagini che mettono in risalto corpi scolpiti da una magrezza sconcertante,  il problema evidenziato dalla madre della dodicenne  è frequente tra la popolazione di giovani adolescenti d’età compresa tra gli 11 /12 e  i  25/30 anni.

Assistiamo spesso ad episodi di ragazzine che pur di avere un aspetto gradevole e socialmente condiviso (essere magre) si auto- impongono, senza alcun parere medico, un regime alimentare così rigido da permettere loro di raggiungere l’obiettivo non tenendo conto che tale regime, inadeguato all’età, può causare danni all’organismo specie quando è in fase di crescita.

S’inizia quasi per gioco o per sfida. Se l’azione si protrae nel tempo e si nota che a questo atteggiamento si affiancano quelli che denotano disagio interiore, diventa necessario tenere la situazione sotto controllo: osservare, capire, non invadere, ma nella consapevolezza di non poter risolvere il problema da soli  sarà opportuno rivolgersi ad uno specialista per evitare che il “gioco” possa diventare un vero e  proprio “disturbo alimentare”.

Che cosa s’intende e come nasce il disturbo del comportamento  alimentare?

Il disturbo alimentare è “un male di vivere” che forse nasce da un rapporto distorto con la famiglia e con gli altri, da una distorta e negativa percezione di sé e del proprio corpo  e con la propria individualità prima che con il cibo.

Le ipotesi avanzate sulle cause (eziologia) di tale fenomeno sono prevalentemente rivolte all'adeguamento sociale nei confronti degli Status Symbol (promossi dalle tendenze della moda) senza tener conto che si tratta anche di manifestazioni di disagio interiore di natura affettivo - relazionale, e i soggetti che vengono sottoposti ad anamnesi clinica manifestano bassa autostima, carenza di rilevanti rapporti sociali, depressione e difficoltà nelle relazioni interpersonali.

Questo clima culturale in cui oggi crescono le ragazze ha un peso fondamentale per l’instaurarsi di tale disturbo. Esse hanno come modello quello comunemente accettato della donna di successo, competitiva e autonoma a cui vengono associati la magrezza, la forma fisica e l’autocontrollo.

Per arrivare ad ottenere questi risultati sono disposte a tutto fino a che il disturbo si trasforma in vere e proprie malattie , le cui diagnosi non sono immediate , perché all’inizio si possono confondere con una semplice astenia o con la voglia di perdere qualche chilo.

Infatti all’inizio della dieta al dimagrimento non segue un calo di forze fisiche, anzi aumenta la resistenza alle fatiche specie quelle di tipo intellettuale. Le prestazioni scolastiche non subiscono cali, aumenta l’umore che diventa quasi euforia, migliorano le prestazioni sportive e tutto procede bene.

 Ad un certo punto però il ciclo mestruale sparisce, e comincia la preoccupazione da parte delle mamme. E’ proprio la scomparsa di tre cicli a far sì che si possa poi diagnosticare una delle due malattie: l’anoressia nervosa. Questo è quanto stabilisce il D.S.M. IV  pubblicato nel 1994 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders).

L’anoressia e la bulimia sono i due principali disturbi dell’alimentazione  con alla base gli stessi valori culturali anche se alla base della seconda c’è anche la difficoltà di rendersi autonome dalla famiglia d’origine. Laddove c’è un carattere più impulsivo e meno volitivo, la bulimia s’instaura dopo l’anoressia.

Quindi si cede alla “tentazione” del cibo abbuffandosi e poi si ricorre al vomito per rimediare. In questi casi risultano più gravi i problemi fisici che nell’anoressia, meno evidenti e più subdoli,  segnali da non sottovalutare perché bisogna intervenire al più presto.

Come prevenire e ridurre quindi i fattori di rischio  dal punto di vista pedagogico clinico?

Per prevenire i fattori di rischio innanzitutto occorre sensibilizzare e formare insegnanti e genitori per preparare i ragazzi ai cambiamenti fisiologici a cui nella fase adolescenziale sono sottoposti, perché da soli non sono capaci di darsi  una corretta spiegazione.

Comportamenti  corretti da assumere.

·     dare le dovute spiegazioni sul fenomeno del tutto naturale a cui tutti siamo sottoposti 

·     dare una corretta spiegazione agli effetti che la pubertà ha sul fisico anche e soprattutto rispetto ad esempio alla maturazione sessuale,  per cui nella scuola e in famiglia è più forte l’informazione educativa.

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sdrammatizzare quanto più è possibile alcune situazioni di disagio.

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smussare quelle aspettative che potrebbero aumentare i problemi associati al peso e all’alimentazione: l’obesità, la ricerca di magrezza che può sfociare in anoressia e bulimia.

Sia la  famiglia  che la scuola  hanno questo ruolo con competenze diverse. In particolare, però,  la scuola è da considerarsi  il luogo ideale dove , come pedagogista clinica,  poter avviare una riflessione sulla correlazione tra le caratteristiche psicologiche del mondo adolescenziale e le trasformazioni corporee tipiche dell’età, che sono alla base della strutturazione sintomatica dei DCA.

Perciò con la collaborazione di insegnanti motivati a ridurre il disagio dei propri allievi è possibile proporre nelle scuole maggiormente a rischio,  progetti pedagogico clinici focalizzati sulle difficoltà legate all’emozionalità, alla relazionalità e al vissuto affettivo-alimentare.

Dall’osservazione sistematica della situazione di partenza , ottenuta con l’utilizzo  di metodi specifici , il P. C. interviene in aiuto ai ragazzi  offrendo loro  la possibilità di raccontarsi, di esprimere i loro pensieri, le loro aspettative , i dubbi e le perplessità prestando attenzione e ascolto alle singole istanze e “urgenze”; nello stesso tempo  ricava i dati necessari con cui  impostare un lavoro di riflessione .Non solo ,ma proponendo e facendo vivere una ricca e varia esperienza artistica e musicale il p.c. offre ai ragazzi l’occasione di vivere processi di individuazione del sé, da cui dipende l’effetto organizzatore base del riequilibrio della personalità.   Ciò favorisce il conoscersi, il sentirsi, il parteciparsi, e origina così  nella persona il desiderio di coniugarsi con se stesso .

 

dott. Giulia SADILE

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La paura dal punto di vista pedagogico clinico.

 

Chi di noi non ha paura?

 Nella vita di tutti i giorni spesso sentiamo dire “No questa cosa non la faccio o no lì io non ci vado perché ho paura.”

Cos’è la paura?

 Con questo termine si identificano stati di diversa intensità emotiva sia di natura  fisiologica come il timore, l'apprensione, la preoccupazione, l'inquietudine o l'esitazione , sia di natura patologica come l'ansia, il terrore, la fobia o il panico.

Soffermiamo l’attenzione su come il termine paura viene  utilizzato per esprimere un’emozione di natura fisiologica  appartenente sia all’uomo sia agli animali.

La paura è  uno stimolo che attiva reazioni utili per difendere l’individuo  dai pericoli del micro e del macro ambiente.

E’ un campanello d’allarme , una reazione davanti al pericolo

 Che ruolo ha la paura nella sfera psichica individuale?

 l’uomo assume un ruolo ambivalente, perché oscilla tra istinto ed elaborazione culturale e si colloca nella nostra vita psichica come fattore di crescita o di involuzione.

Trattandosi di un’emozione la paura coinvolge anche i bambini più piccoli che non sono capaci di verbalizzarla e quindi risulta più difficile individuarla. Le paure si classificano in:

1.    paure innate 

2.     paure apprese.

Tipica dei bambini è la paura del buio ( che rientra nella classificazione delle paure innate insieme alla paura dei rumori intensi,  degli estranei, per certi animali, ragni e serpenti e il terrore alla vista di parti anatomiche umane amputate)perchè, non riuscendo a distinguere  bene gli oggetti  essi vanno incontro  a problemi sia di ordine fisico sia di ordine fantastico. I bambini, pertanto,  temendo il buio, evitano degli inconvenienti  spiacevoli, perché o non affrontano la situazione o convincono i genitori o chi per essi a farsi accompagnare.

Solo raramente la paura del buio può riguardare  una malattia genetica “la  nictalopia“ più probabile nel sesso maschile , un raro disturbo di cecità notturna che consiste nell’incapacità di adattarsi al buio anche dopo un primo fisiologico adattamento.

Molti genitori credono che quando un bambino verbalizza la paura del buio e non vuole spostarsi da un punto all’altro della casa, intende solo attirare su di sé la loro attenzione, mentre nella realtà dei fatti non è sempre così.

È anche interessante notare il parallelismo tra il mondo umano e quello animale: come il bambino, avendo paura del buio, evita spiacevoli inconvenienti, così un cerbiatto, avendo paura del leone, riesce a scappare e quindi a non essere eliminato.

Le tipologie della paura

La paura fisiologica, intesa come fattore di crescita, va differenziata da quella clinica che, intesa come fattore di involuzione, risulta negativa perchè invece di proteggere rende succubi e immobili.

Quando la paura diventa patologica?

 Essa diventa patologica quando non esiste un pericolo reale o si esprime con un’intensità eccessiva rispetto allo stimolo; quindi s’inserisce nel grande capitolo DSM IV dei disturbi d’ansia.

Da dove deriva la paura?

La paura è legata alle caratteristiche fisiche e biologiche dell’individuo stesso . Essa  dipende da tre fattori:

1.    dal nostro cervello, quindi dalla nostra biologia, quindi è legata al “Riduzionismo Biologico”

2.    dalla nostra personalità che si forma da 0 a 3 anni, periodo in cui si gettano le basi fondamentali; dalle esperienze di quest’età, se siamo fiduciosi o sfiduciati, estroversi o introversi

3.    dall’ambiente non solo fisico-geografico ma anche relazionale.

Il fattore ambiente può tanto spaventare tanto rassicurare i soggetti stessi.

 Per ambiente relazionale s’intendono tutti gli ambienti in cui i soggetti entrano in relazione con i pari e con gli adulti. Quindi può capitare che in uno stesso ambiente tipo la scuola, i soggetti possono sentirsi a disagio con alcune figure adulte di riferimento mentre con altre no. Inizialmente  non si è consapevoli del perché avvenga ciò .

In definitiva, la paura dipende dal cervello, dalla personalità e dall’ambiente soprattutto psicologico.

Un estroverso ha paura di chi è invece chiuso dentro di sé. Il timido non osa affrontare le situazioni , anzi non affronta per niente la realtà proprio per paura.

La paura dell’ignoto è frequente tra i giovani, ma è anche frequente aver paura di ciò che si conosce bene.

Tra le due qual è la forma peggiore?

Esistono paure senza oggetto e paure degli oggetti. Sono tante . Si possono affrontare meglio quelle verso oggetti , anche perché molte volte non è tanto la paura dell’oggetto che conta , ma conta di più ciò che l’oggetto stesso può raccontarci o farci rivivere.

Spesso accade di provare paura per qualcosa perché  tramite un processo di “spostamento difensivo” si trasferisce la paura reale sull’oggetto  in modo tale da poter continuare a convivere con la causa reale della paura. Come dice Freud il piccolo Hans aveva paura del cavallo bianco fino a svenire , perché aveva trasferito su di esso la paura che provava per il padre col quale comunque doveva  continuare a vivere.

Le paure nelle varie fasi dello sviluppo evolutivo.

Con l’età  la paura diventa più astratta però  il soggetto comincerà ad avere paura del suo futuro. Ogni età ha le sue paure: il neonato ha paura dei rumori, del dolore, ma non avrà paura del buio. Comincerà ad avere paura del buio verso i tre anni, ma non avrà paura dei mostri per mancanza di fantasia  per  rappresentarli, però verso i 4 -5 anni comincerà ad avere  paura per i fantasmi e dell’uomo nero. Comincerà a sentire parlare di morte e a farsene un’idea . Verso i 7 -8 anni comincerà ad avere paura degli incidenti , dei ladri o delle punizioni. L’adolescente invece svilupperà paure inerenti al rapporto con gli altri ( la paura di sbagliare, di non essere all’altezza , del confronto, del giudizio). Deve imparare a fronteggiare una serie di situazioni sociali, perché ha paura di fare brutte figure. Sono paure sociali per un ambiente che non conosce bene, che non controlla bene , perché poco competente. Man mano che cresce  che va avanti impara , più si impara più la paura scompare.

Proponendo un’intervista riguardo le paure sia a bambini in età scolare sia ad adolescenti, mi risulta che ovviamente non esiste solo la paura del buio, ma esistono anche delle altre forme di paura ad esempio quella per gli  insetti che vengono subito eliminati perché sono una minaccia alla loro serenità. La paura per gli insetti  è legata alla non familiarità con gli esseri stessi. Quando i soggetti sono costretti a viverla si impauriscono , urlano ,  scappano  e alcuni addirittura li uccidono .

Allo stato attuale  i bambini,  i ragazzi  vivono la loro infanzia , la loro adolescenza non più  a contatto con la natura , ma seduti davanti ad uno schermo ,  per ore , ignari  di essere le vittime indifese di altre  forme di paure , quelle più incontrollate e poco velocemente identificabili  perché non tutorati da figure adulte.  Esistono paure  legate ad una certa forma di insicurezza caratteriale e di scarsa autostima (paura di sbagliare, paura del giudizio altrui, paura di essere inadeguato e di non essere all’altezza delle situazioni,…)

Spesso la paura è legata anche  alle esperienze del passato( che rientra nella classificazione delle paure apprese attraverso il condizionamento di esperienze dirette che risultano penose e pericolose) e alla non conoscenza: delle persone (paura del prossimo), dei sentimenti (paura di amare), delle proprie reazioni (paura di noi stessi) e del futuro (paura di crescere).

In particolare quest’ultima coinvolge maggiormente i bambini e gli adolescenti, specialmente quelli che molto prematuramente sono stati costretti a vivere delle esperienze di privazione affettiva. Dall’elaborazione di tali eventi, i soggetti si convincono che, non crescendo, possono fermare il tempo e possono quindi essere esenti da quelle stesse esperienze che hanno turbato la loro serenità.

 

Come il corpo manifesta la paura?

Le risposte sono naturalmente varie e soggettive .C’è hi suda , chi aumenta la frequenza cardiaca, chi scappa, chi urla e chi si paralizza, chi trasforma il suo aspetto lasciando trasparire il terrore.

Mentre in alcune circostanze il corpo può rappresentare la paura con un senso di spiacevolezza e con un  forte desiderio di evitamento nei confronti di un oggetto o situazione giudicata pericolosa; in altre situazioni  può creare una tensione tale da immobilizzare, paralizzare addirittura la persona  e determinare una selettività dell’attenzione dell’esperienza. Dal punto di vista prettamente affettivo predomina un senso di insicurezza e il desiderio di fuga.

La paura dal punto di vista pedagogico clinico come va affrontata.

 Qual è il comportamento che bisogna assumere nei confronti dei bambini che hanno paura del buio?

 Mantenere la calma, allentare la tensione, sdrammatizzare ma non ridicolizzare la situazione,  accompagnare il bambino per tranquillizzarlo per poi dimostrargli visivamente che non c’è nessun pericolo e nessun “uomo nero o strega maligna” che voglia fargli del male.

Quale  atteggiamento è proprio da evitare? La derisione, la canzonatura, il mettere in ridicolo nei confronti del parentado o degli amici.

Come superare quindi in generale la paura specie nei bambini ?

Innanzitutto è il tempo che lenisce ogni paura. In quest’ottica è importante il valore esperenziale che porta all’autonomia, non bisogna risolvergli sempre tutte le problematiche. All’inizio bisogna guidare il bambino , poi pian piano seguirlo a distanza senza interferire, senza sostituirsi perché è solo con l’esperienza che si impara a non avere paura della paura. Bisogna raccontargli  fiabe e racconti appositamente prescelti  che indirettamente aiuteranno  il bambino a prendere coscienza  che non c’è bisogno di aver paura e quindi la situazione migliorerà in un lasso di tempo che rimane comunque soggettivo. È necessario non far passare molto tempo perché c’è il rischio che col passar del tempo la paura stessa si ingigantisca per effetto della nostra immaginazione. Noi abbiamo la capacità, di rielaborare mentalmente le esperienze , di collegarle tra  di loro , e anche   d’ingigantire un problema  a differenza degli animali che rispondono istintivamente ad uno stimolo. A volte si vivono  esperienze  traumatizzanti  che fanno sviluppare un trauma e per rimuoverlo è necessario attivare determinate tecniche specifiche  che sono proprie della Pedagogia Clinica, scienza in grado di dare le risposte adeguate al vasto panorama dei bisogni dell’uomo.

 Alla lettura di fiabe e racconti  bisogna far seguire momenti di esposizione creativa di pensieri e messaggi evocati; dare l’opportunità di rappresentare  graficamente sentimenti,  emozioni  e vissuti , grazie al valore sollecitatorio della cromaticità e alternare momenti di gioco con tecniche diverse:

·       (ludopedagogia) : manipolazione di diversi materiali e con il supporto del colore per favorire una esperienza liberatoria dai condizionamenti dell’ambiente  da paure , ansie;

·       Psicodramma pedagogico : momenti di gioco con i burattini per  bambini fino a 10 -11 anni,  per esprimere in drammatizzazioni spontanee paure e tensioni, disagi , ma anche desideri , emozioni e bisogni per aiutarlo a diventare consapevole e momenti di gioco con maschere (adolescenti) come catalizzatori di contenuti psichici potenziali;

·       Edumovement : esperienze motorie e soprattutto esperienze  respiratorie che permettono di “fermarsi e sentirsi”. Una corretta impostazione respiratoria è utile anche per l’autogestione dell’ansia . Consente così una maggiore coscienza di sé e una diversa autostima personale

dott. Giulia SADILE

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